08/09/2012

Nathan Englander con Carlo Annese

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«Se ci fosse un secondo Olocausto, e tu non fossi ebreo, mi nasconderesti?». Ruotano intorno al difficile rapporto tra tradizione ebraica e modernità gli otto racconti di Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, ultima raccolta dell'americano Nathan Englander (Per alleviare insopportabili impulsi, Il ministero dei casi speciali). L'entusiasmo della critica e dei migliori scrittori americani testimonia la straordinaria abilità di Englander nell'utilizzare il realismo contemporaneo di Carver, riuscendo ad aggiungerci il tocco allegorico di Singer. Lo intervista il giornalista Carlo Annese.

L'evento 143 ha subito variazioni rispetto a quanto riportato sul programma. Originariamente il suo svolgimento era previsto presso Piazza Castello.
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Nato e cresciuto nello stato di New York, Nathan Englander è uno scrittore americano di origini ebraiche. Nei suoi racconti, editi finora in due raccolte (la più recente è "Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank", Einaudi 2012), Englander unisce l'ironia yiddish e la sapienza ebraica, amalgamate entrambe in una prosa diretta ed essenziale. Essere scrittore, dice Englander, è la risposta più a un bisogno che a un desiderio, è «come il morso di un vampiro»: una volta che ci si appassiona alla lettura, la voglia di scrivere è naturale. Riguardo alla sua infanzia dà la «risposta universale per gli scrittori»: «infelice, e mi piaceva leggere». Figlio di ebrei ortodossi, Englander si trasferisce a diciannove anni a Gerusalemme. Proprio in Israele impara che si può essere ebrei in mille modi diversi, e in quel luogo capace di cambiare chiunque («se ci arrivi basso, ne ritorni alto») abbandona la fede, diventando «un ateo terribilmente spaventato dall'ira di Dio». Nonostante le sue origini, Nathan Englander non considera se stesso un rappresentante di una cultura ebraica intesa come specifica e separata dal resto. Spesso, rivela, un lettore si avvicina e chiede: «sono ebreo, questo libro lo posso regalare a un non ebreo?». Ma Englander non si sente un narratore ebraico, da circoscrivere in un recinto accanto ad altre scatole etichettate ('gay', 'nero'): la bellezza della letteratura (nonché la causa della persecuzione dei suoi maestri sotto i regimi totalitari, passati e presenti) è proprio nel fatto che è la specificità - anzi, sono le specificità insieme - a costituire l'universale. Certo, però, che i racconti di Englander alla tradizione e alla storia del popolo ebraico si rifanno, a partire da quel titolo che a un americano ricorda immediatamente Raymond Carver, con il suo celebre "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore". Ma l'«amore» di Carver per Englander è «Anne Frank», e la tematica sottesa - per niente nascostamente - è ciò che in America ancora si definisce olocausto, e che in Italia (come in altri paesi europei, Francia in testa) da tempo si preferisce chiamare shoah. Il problema della proprietà, della titolarità («ownership», dice Englander) di questo argomento è ancora oggi cruciale, ma lo scrittore americano non sembra preoccuparsene troppo. «L'obbligo della scrittura è nei confronti della storia» che si intende raccontare, sostiene Englander, che afferma di credere nell'indipendenza della realtà inventata («fictional»). A questa parvenza di autore riluttante a prendere posizione («le grandi decisioni metafisiche - su ciò che legge - deve prenderle il lettore»), Nathan Englander compensa con dichiarazioni esplicite sull'attuale situazione politica americana: «rispetto le idee di tutti, ma spero che i repubblicani stiano mentendo con la consapevolezza di essere bugiardi e avidi». Esprime riprovazione, inoltre, per l'«abuso semantico» di certi testi, dalla "Bibbia" alla "Costituzione americana", perché una lettura parziale e interessata non è mai ammissibile. Questo, per chi scrive, è tutto ciò che conta.

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