09.09.2010
Roberto Cazzola e Dieter Schlesak con Antonio Staude
2010_09_08_019
C'è un prima e un dopo l'esperienza della Shoah anche nelle vite di chi si è fatto complice del male, ma è come se non ci fosse. Le storie di queste persone restano anonime: non portano i segni vivi del dolore inferto. Gli anni della delazione, della collaborazione allo sterminio restano una parentesi in un percorso esistenziale che torna presto alla normalità e alla pace di prima. Con grande cura documentaria nella ricostruzione delle vicende e degli ambienti, Dieter Schlesak ("Il farmacista di Auschwitz") e Roberto Cazzola ("La delazione") ci raccontano due storie di questo tipo: i paesi sono diversi (Germania e Italia), ma l'anno di svolta è lo stesso - il 1944 -, come simili sono la sorte delle vittime e la banalità dei persecutori. Incontra i due autori Antonio Staude.
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Italiano
Come sono sopravvissuti a loro stessi gli aguzzini della Shoah? Come si può spiegare ciò che hanno fatto? Cosa li ha condotti fino a lì? Oggi all'incontro delle 11.15 al Seminario Vescovile, Dieter Schlesak e Roberto Cazzola hanno provato, con Antonio Staude, a formulare alcune risposte. Dieter Schlesak è autore transilvano di lingua tedesca, sfuggito alla Romania comunista, prima per cercare un rifugio dal proprio vissuto, poi per spiegarlo (o almeno provarci) a sé e agli altri. Figlio di una minoranza di lingua tedesca in terra rumena, è stato uno dei bambini del Reich e suo zio ha militato tra le SS di Auschwitz: come poteva non confrontarsi con questo tema tremendo? Nasce infatti dalla profonda volontà di capire, il suo "Il farmacista di Auschwitz" (Garzanti, 2009). Questi padri, zii, ecc. assolutamente normali agli occhi dei loro figli e nipoti, come hanno potuto essere tali e al contempo criminali nazisti? Schlesak ha raccolto la propria documentazione con paziente pena e solo a quel punto ha preso la penna: ha scritto 400 pagine di quello che avrebbe dovuto essere il suo romanzo, poi si è fermato e le ha stracciate. Perché? Perché chi non ha vissuto Auschwitz non lo può raccontare, né capire le vittime e i carnefici: non ne possiede né ragioni né parole. Tutte testimonianze documentate e tutti personaggi realmente esistiti sono dunque quelli del suo libro, con un'unica eccezione: Adam. Adam, Adamo, il primo uomo, un uomo, l'Uomo: colui che nel romanzo presta la voce a tutti gli ebrei che hanno visto la Shoah e, in parte, forse, anche a Schlesak stesso. Adam dice che la lingua dei carcerieri nazisti non è vero tedesco, ma ringhio di bestie: il vero tedesco è una lingua che per lui è madre e che lo accoglie quando decide di raccontare. E' la letteratura allora il rifugio vero in cui cercare risposte a certe domande: perchè tanti tedeschi hanno potuto fare ciò che hanno fatto? Perchè il male non è banale, ma per molti di loro era divenuto "familiare". Occorre ricordarlo e testimoniarlo. In profonda sintonia Roberto Cazzola, torinese, germanista, autore de "La Delazione" (Casagrande, 2009) racconta come nella Torino del 1944 la giovane Luigina Zonga denunci alle autorità Selma, fidanzata ebrea del suo vicino di casa, Alfredo. Selma verrà deportata e Alfredo incarcerato e torturato. Un Alfredo ottantenne, vive col senso di colpa di chi è sopravvissuto, farà in seguito visita a quel carcere con la nipote, ricordando quanto avvenuto molti anni prima. Al suo ritorno Selma vede come il mondo è andato avanti senza di lei, e non accetterà mai l'indennizzo che lo Stato le offrirà quale risarcimento. Non vuole essere di nuovo trattata come merce venduta per un prezzo (le 2000 lire che la Luigina ha ricavato dalla sua delazione): la dignità umana non è quantificabile in una somma di denaro. Come già Schlesak, anche Cazzola corregge l'accostamento del suo libro alla formula della Arendt, parlando di «stupidità del male». Banale può essere l'individuo che commette il male, non il male in sé: grande, tremendo, distruttore. Ma quale stupidità? Dell'intelletto o del sentimento? Cognitivo o caratteriale? Innato o indotto dal potere? E' la stupidità della morale che latita, dell'indifferenza e della connivenza, e, poi, dell'amnesia. L'idea che ha caratterizzato questo incontro è che la letteratura sia la staffetta che traghetta, di generazione in generazione, la memoria. Le domande del pubblico hanno approfondito questo aspetto: la letteratura che mantiene vivo il ricordo e impedisce alla coscienza di assopirsi, ma anche la letteratura che denuncia. Sollecitato da una domanda che gli chiedeva di confrontare il regime nazista con quello comunista, Schlesak ha ricordato come in Romania il suo ruolo di intellettuale fosse quello di criticare il regime di Ceausescu, nonostante, e forse proprio in nome della sua fiducia nel marxismo; ma una volta arrivato in Italia ha sempre rifiutato di fermarsi solo a quella critica: Ceausescu è stato sì un dittatore, ma con lui i gulag sono caduti in disuso e gli scrittori potevano "dialogare" con la censura, cosa che con le leggi del mercato occidentale non si può fare tanto. La letteratura deve confrontarsi con la realtà che la circonda e con le domande che la riguardano, che vengano dal suo presente o dal suo passato, che si chiedano dov'era diretto lo sguardo di Dio mentre il suo popolo veniva sterminato, o che frughino nel vuoto abissale dell'animo di un meschino farmacista che lavorò ad Auschwitz.