09.09.2010

Azar Nafisi con Marta Dassù

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«Il puro, sensuale e genuino piacere di leggere», rivendicato in "Leggere Lolita a Teheran", nasce per Azar Nafisi tra le mura di casa, ascoltando la sera, dalla voce del padre, le storie dello "Shahnameh", Il libro dei Re" o di giorno la madre ricordare il ballo in cui il suo primo marito aveva iniziato a corteggiarla: «raccontare era una passione di famiglia». Le ragioni del raccontare e del raccontarsi affondano per Nafisi nella sostanza delle relazioni più intime. Qui, tra parole e silenzi, la scrittrice trova una trama per la sua famiglia: le persone più care sono raccontate da quello che diventano e l'affetto si sforza di seguirle, non potendo che lasciarle libere di divenire. Incontra l'autrice di "Le cose che non ho detto" Marta Dassù, politologa e autrice di "Mondo privato e altre storie".

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Italiano
«Il totalitarismo è morte, cultura dell'oblio, del dimenticare. Raccontare storie è resistenza alla morte, all'oblio, e quindi anche al totalitarismo».
Una testimonianza letteraria e umana davvero interessante quella della scrittrice iraniana trapiantata negli Stati Uniti Azar Nafisi, che al Cortile della Cavallerizza di Palazzo Ducale ha dialogato con la studiosa e saggista Marta Dassù.

L'autrice di "Leggere Lolita a Teheran" ha raccontato i motivi fondanti che stanno alla base della sua opera narrativa. Innanzitutto fatti privati, come la morte dei genitori, legata all'importanza di affermare la propria individualità: «I regimi totalitari aggrediscono i singoli, le identità individuali, e fanno sentire in colpa le persone per cose che non hanno commesso. Mi sentivo in colpa per non aver potuto essere vicina ai miei genitori quando se ne sono andati, e ho iniziato a scrivere ciò che gli avrei voluto dire. Tanti libri scaturiscono da conversazioni che non hanno avuto luogo».

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