05/09/2012

Francesco Targhetta con Andrea Cortellessa

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Curatore della recente edizione de "Gli aborti" di Corrado Govoni e autore della raccolta di versi "Fiaschi", Francesco Targhetta ha tentato con "Perciò veniamo bene nelle fotografie" la strada del romanzo in versi per raccontare con un diverso posizionamento di sguardo e forme inconsuete la stagnante condizione dei trentenni italiani tra precariato e adeguamento al conformismo. Di questo esperimento che rimanda a Elio Pagliarani, alla poesia crepuscolare e ai romanzi di Luciano Bianciardi, Targhetta parla con il critico letterario Andrea Cortellessa, curatore di "Narratori degli anni zero".
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Gli anni zero sono ormai finiti, ma non sembra, almeno da queste prime due primavere, che il nuovo decennio sia iniziato sotto una luce diversa, almeno per quanto riguarda i giovani che si affacciano (o meglio cercano di affacciarsi) al mondo del lavoro. 
La stessa denominazione, seppur legata ad aspetti semplicemente numerici, di 'anni zero' richiama da subito, come ha sottolineato il critico letterario Andrea Cortellessa, una concezione nichilistica: una generazione che sembra caratterizzarsi da «un'infelicità senza desideri che non siano quelli legati al consumismo». Una generazione che è stata ampiamente trattata in letteratura (su questo tema sono state scritte diverse antologie), nel cinema (si pensi a "Tutta la vita davanti" di Virzì o "Generazione mille euro") e nella musica, di cui ne è un esempio calzante il verso di Vasco Brondi che recita «cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero», urlato catarticamente dal pubblico durante i suoi concerti, come a voler esorcizzare un fantasma non così lontano dal materializzarsi.
Forse, cosa racconteranno a questi figli immaginari, se lo chiedono anche i protagonisti del romanzo di Francesco Targhetta,"Perciò veniamo bene nelle fotografie", che è stato oggetto dell'incontro con Cortellessa. Se se lo chiedono, però, lo fanno in un modo, in una forma diversa, almeno nello stile. Il lavoro di Targhetta affronta infatti questo tema in maniera differente da quanto pubblicato fino ad oggi: lo fa raccontando questa storia in versi, in poesia.
Poesia che cerca di farsi narrazione, anche se gli inserti liristici spesso rendono l'impresa molto ardua (questo, a detta dello stesso autore, il limite più forte della sua scelta stilistica), ma che riesce a dare al linguaggio una densità spesso irraggiungibile dalla prosa.
Una rima o assonanza dopo l'altra, quella che racconta Targhetta è la generazione dei trentenni di oggi, paradossalmente 'iper-formata' (i laureati sono di sicuro in numero maggiore rispetto a decenni precedenti), ma costretti a muoversi continuamente come le «palline di un flipper», un moto perpetuo in un recinto chiuso, alla ricerca di una stabilità, economica, sentimentale, famigliare che sia, capace di assumere sempre di più i toni dell'utopia.
Giovani continuamente ricattati dal mondo del lavoro («se non ti vanno bene queste condizioni là fuori c'è la fila di gente che vuole questo posto, regolati come vuoi...») e che non riescono a trovare la via di uscita da questa situazione, proprio come il personaggio del romanzo che, cercando di diventare professore, si accorge, tra una supplenza e l'altra, di «insegnare la storia mentre sei tu che impari di essere sostituibile come tutto il resto».
Tra rimandi alla poesia di Pagliarani e ai romanzi di Bianciardi, il lavoro di Targhetta riesce a definire perfettamente questa generazione, affogata da una paura che a volte congela pericolosamente ogni tipo di scelta. Lo capiscono gli stessi protagonisti: è per questo che veniamo bene nelle fotografie, perché siamo fermi, immobili, «scarichiamo la furia come scarichiamo i film la sera». Non è un caso, quindi, se nella realtà se sia nata una rete chiamata San Precario...

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