08/09/2012
CACCIATORI E COLLEZIONISTI DI PIANTE DAL CINQUECENTO AD OGGI. Dai vegetabili di Ulisse Aldrovandi alle passiflore di Maurizio Vecchia
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Da quasi vent'anni Maurizio Vecchia, farmacista di un piccolo comune della provincia di Cremona, colleziona esemplari di passiflora. Alcuni libri, viaggi e numerosi tentativi di riproduzione da semi misteriosi hanno alimentato le sue conoscenze e la sua grande passione. Oggi possiede una collezione di centinaia di esemplari appartenenti a circa 250 specie. Dialoga con lui Eraldo Antonini, agronomo e paesaggista, docente presso l'Università di Modena.
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Eraldo Antonini, agronomo e paesaggista e Maurizio Vecchia, farmacista che ha fatto della raccolta di passiflore il suo 'vero' lavoro, aprono il loro racconto con la definizione di giardino. «Che cos'è un giardino? Un recinto con al centro un fiore». Questo l'archetipo, questa l'iconografia. Un giardino è una collezione di piante, una raccolta di oggetti viventi - oltre che vivi. Si colleziona per avere qualcosa che è lontano - raro, difficilmente raggiungibile - per poterlo avere vicino, a portata di sguardo e di mano. C'è qualcosa di voyeuristico nel raccogliere, catalogare, accumulare cose, siano esse piante, opere d'arte o chincaglierie - a maggior ragione se l'oggetto in questione è un fiore. Il primo museo naturale, istituito dal bolognese Ulisse Aldovrandi, non a caso fu chiamato: "Teatro naturale". Scienziati, botanici, astronomi, topografi e geografi in qualità di plant hunters, partivano per spedizioni che potevano durare anni - o tutta la vita, in caso di febbri e malarie - in cerca di nuove specie, anche fungendo da mera copertura ad azioni coloniali. Nel Seicento la febbre dei fiori, la tulipomania, è stata la prima bolla speculativa documentata nella storia del capitalismo. La domanda di bulbi raggiunse un picco così elevato che ogni singolo pezzo raggiunse prezzi inimmaginabili. Il bulbo più famoso - perché di bulbi si trattava (non ancora di fiori) e quindi di investimenti ad alto rischio (il Semper Augustus) - fu venduto per 6000 fiorini (più de "La ronda di notte" di Rembrandt): all'epoca corrispondenti a una grande quantità di animali da stalla, otri d'olio, botti di vino e birra e svariate tonnellate di grano - tutto per un fiore, «my kingdom for a [flower]!». La Passiflora - o Flos Passionis - era usata dai padri colonizzatori per indottrinare le popolazioni indigene: un utilissimo modello allegorico della passione di Cristo. I cinque petali e i cinque sepali rappresentano gli apostoli (eccetto Pietro e Giuda), i filamenti la corona di spine, i cinque stami le ferite e i tre stigmi i chiodi nella croce. «A questa pianta», dice scherzando Vecchia «piacciono i numeri dispari, il tre e il cinque.». In Giappone, ironicamente, è invece stata assunta come simbolo dai giovani omosessuali. Questi fiori della lontananza - di cui non esistono specie europee o africane e che vanno dal bianco al violetto attraversando tutte le sfumature dell'iride, ma rifuggendo dostoevskijanamente il giallo - ci si mostrano come un variabile tirassegno concentrico, ipnotico per gli impollinatori. Maurizio Vecchia li cerca, ricerca, raccoglie e protegge nel suo giardino da quasi vent'anni, da quando lesse il libro "I frutti tropicali in italia", scritto da Guglielmo Betto - profusore di semi preziosi. Non venderebbe mai i suoi ibridi (tra cui la Fata Confetto) e la sua bellissima favola contemporanea non può che ricordarcene un'altra, citata pochi giorni fa anche da Massimo Gramellini, quella del "Piccolo principe".