09/09/2012
IL NERO LIBRO DELL'UMANITÀ
2012_09_09_192
Se guardiamo alla vita dei soldati e agli orrori nascosti sotto la patina del dovere, qualcosa di spaesante ed estremamente vicino alla routine quotidiana viene alla luce, aprendo una nuova prospettiva sul nostro modo di leggere la Storia e, in particolare, gli eventi della Seconda Guerra Mondiale. Questo è quanto emerge dalle intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri nei campi alleati, confluite per la prima volta nel libro Soldaten. Combattere uccidere morire. Un'inedita disamina della banalità del male sarà al centro dell'incontro tra gli storici Sönke Neitzel (co-autore del volume insieme a Harald Welzer) e Amedeo Osti Guerrazzi (Noi non sappiamo odiare).
Con il contributo di Goethe-Institut Mailand.
Con il contributo di Goethe-Institut Mailand.
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Tedesco
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È il novembre 2001 quando lo storico tedesco Sönke Neitzel scopre, negli archivi di stato di Londra e Washington, centinaia di migliaia di pagine che raccolgono le intercettazioni effettuate durante la seconda guerra mondiale nei campi inglesi e americani in cui erano tenuti prigionieri soldati tedeschi. Un «vero e proprio tesoro storico» (coperto, fino al 1996, dal segreto di stato), che Neitzel interroga con l'aiuto dello psicologo sociale Harald Welzer in "Soldaten. Combattere uccidere morire" (Garzanti, 2012). Queste fonti inedite, che riportano dialoghi e conversazioni fra i prigionieri, sono utilissime alla comprensione del modo di parlare (e, di conseguenza, di pensare) dei giovani tedeschi dell'epoca; compongono, insomma, una sorta di «grammatica della guerra» che è possibile indagare per confrontarsi con alcuni fra gli interrogativi più pregnanti della cultura (storica ma non solo) contemporanea: perché i soldati tedeschi hanno condotto quella guerra di annientamento e distruzione? Perché la società tedesca ha condotto in quel modo quella guerra? Il quadro di riferimento nel quale Neitzel e Welzer collocano i dialoghi dei soldati tedeschi è suddiviso in quattro livelli: antropologico (relativo alla comunicazione), sociale, militare e personale (riferito all'individualità del singolo). Di questi, il secondo e il terzo sono quelli su cui il libro offre maggiori spunti. A livello sociale, vivere sotto il regime nazionalsocialista significava per i giovani soldati crescere considerando parte dell'ordine delle cose l'esclusione degli ebrei da molte occasioni della vita comune. Nelle loro conversazioni, la violenza è trattata con la normalità che si attribuisce a una brutalità quotidiana. Dell'etica restavano pochi deboli frammenti, come la vergogna provata per la violazione della «matrice maschile della guerra» (di fronte allo stupro di una donna, o all'uccisione di un bambino), ma ciò è valido solo - sostiene Neitzel - nel caso della persecuzione contro gli ebrei: nella lotta ai partigiani tutto è permesso. Dal punto di vista militare, l'idea di sacrificio incondizionato (comune nell'esercito giapponese) non fa parte del modo di essere dei soldati della Wehrmacht, più spaventati dal rischio di morire che seguaci del fanatismo hitleriano. Ma, nonostante la puntualizzazione circa la maggiore ideologizzazione (e, conseguentemente, la maggiore crudeltà) delle unità SS rispetto ai reparti delle forze armate tedesche sotto il nazionalsocialismo, il saggio di Neitzel e Welzer concorre alla distruzione di quel mito di una Wehrmacht 'senza macchia' assai diffuso in Germania almeno fino al 1995, anno della mostra di Amburgo sui crimini dell'esercito tedesco fra il 1941 e il 1944 ("Vernichtungskrieg"). In verità, il termine 'guerra di distruzione, di annientamento' non compare quasi mai nelle conversazioni fra i soldati tedeschi imprigionati, che fanno riferimento a una concezione dell'evento bellico completamente diversa. Quello che oggi è considerato un crimine, per loro era la vita quotidiana: mangiare, obbedire agli ordini, uccidere, per alcuni cercare una donna. L'ordinarietà degli esecutori è l'unico elemento arendtiano che resta nella visione di Neitzel, che nel suo lavoro mira a dimostrare come in certe circostanze non sia l'ideologia il fattore decisivo per commettere un crimine. Il motivo per uccidere è ancora più «banale», tanto è vero che anche coloro che fra i soldati avevano perso la fiducia nel Führer non si tiravano per questo indietro. Ma "Soldaten", a dispetto del titolo, non è un libro che parla soltanto dei soldati tedeschi. L'intento degli autori è anzi mostrare come funzioni una simile «grammatica della guerra» per un soldato semplice di qualsiasi nazionalità. Per questo nel saggio vengono tracciati diversi parallelismi fra la situazione documentata dai protocolli di intercettazione e l'esperienza dei soldati tedeschi in Afghanistan e di quelli americani in Iraq. Anche se da allora persone e circostanze sono cambiate, è comunque possibile riscontrare similitudini notevoli - e non sempre rassicuranti - con l'oggi.