06/09/2013

L'EREDITÀ DI GIUSEPPE PONTIGGIA

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«Noi dobbiamo piuttosto difendere l'immagine della cultura che il libro esprime rispetto ad altre fonti di sapere. E la lettura come esperienza che non coltiva l'ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura amante degli indugi e dei ritorni su di sé, aperta, più che alle scorciatoie, ai cambi di passo che assecondano i ritmi della mente e vi imprimono le emozioni e le acquisizioni. È in questa esperienza del libro che il libro diventa un'esperienza essenziale». A dieci anni dalla morte, a Festivaletteratura si riflette sull'eredità lasciata dallo scrittore e saggista, grazie alla parole lasciate nei suoi incontri al Festival. Con l'aiuto del materiale di archivio, lo ricordano gli amici Diego De Silva e Serena Vitale.

L'evento "L'eredità di Giuseppe Pontiggia" ha subito variazioni rispetto a quanto riportato sul programma. Originariamente non era prevista la presenza di Simonetta Bitasi.
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Italiano
Serena Vitale e Diego De Silva hanno conosciuto bene Giuseppe Pontiggia e a dieci anni dalla scomparsa il ricordo di lui è ancora vivissimo. Pontiggia è presente, non solo tramite gli audio delle sue partecipazioni al Festival nel 1999 e nel 2000, ma rivive anche negli aneddoti di Serena Vitale, frequentatrice di casa Pontiggia, dei suoi poker e delle sue cene tra amici. Il tono è intimo, da confidenza tra amici. Si vuole evitare di celebrarlo come maestro del passato da emulare perché proprio lui, nel 1999, aveva invitato il pubblico di Mantova a evitare di rimpiangere i maestri scomparsi: parlava di quelli della sua generazione, ma il fatto che lui lo sia della nostra è un ovvio sottinteso. Pontiggia spingeva l'Europa a ritrovare il suo ruolo guida, la sua missione, facendo affidamento alla sua cultura millenaria, e in definitiva ai libri, strumenti fondamentali di cultura, ma anche di arricchimento civile e fonti di piacere. De Silva ha trovato la forza di abbandonare il suo lavoro di avvocato grazie all'incoraggiamento e all'amicizia di Pontiggia. Dopo anni difficili è riuscito ad affermarsi e, finalmente, a smettere di usare il linguaggio per mentire, piegandolo allo scopo superiore di vincere la causa e far assolvere il cliente, meglio ancora se colpevole. Con la scrittura romanzesca ha recuperato una lingua autentica, piana, insindacabile, volta alla ricerca della verità e non del proprio tornaconto personale. De Silva è affascinato dall'idea pontiggiana che il sapere non si trasmette al contrario dell'emozione, che ha carattere di totalità ed è quindi trasmissibile. Per 'far passare' il sapere, per insegnare è quindi necessario avvalersi dell'entusiasmo. Per Pontiggia è fondamentale sedurre con le emozioni per trasmettere il sapere a terzi, siano questi alunni o lettori. Il linguaggio di Pontiggia è preciso, terso, comprensibile. Il rispetto sacrale per la parola che lo caratterizzava gli rendeva insopportabile il linguaggio scadente e il 'pensiero buttato lì'. La narrativa e la curiosità personale di Pontiggia, perché di entrambi i piani si è parlato, non sono solo alla ricerca di storie e personalità auliche, che contano. Il suo "Vite di uomini non illustri" lo dimostra: esiste anche una mediocrità quotidiana bella, commovente, che ha valore e che fa parte delle vite comuni. L'argomentazione di Pontiggia è un continuo, volontario inciampare su se stessa, su quanto appena detto. I suoi ragionamenti sono un continuo tentativo di rigirare il prisma della realtà per osservarlo da ogni lato, anche se il nuovo punto di osservazione contraddice il precedente. Quello che conta è smentire i luoghi comuni e i pensieri sciatti e usurati per trovare il pensiero e la parola che afferrino il reale, che tentino di aggirarlo per inquadralo da ogni prospettiva. I commoventi ricordi di Serena Vitale non vogliono celebrarlo ma farlo rivivere sul palco oltre che nei suoi libri, dove già Pontiggia si è guadagnato l'eternità. Anche noi scadiamo nell'ingenuità delle celebrazioni: è una scelleratezza parlare di eternità. Non è nulla la vita di un uomo a confronto dell'eternità, per questo ammoniva continuamente a vivere nel presente, perché il passato e il futuro sono condomini sovraffollati in cui ci rifugiamo quando non sappiamo vivere il presente. Anche il suo collezionismo da bibliofilo non aveva ambizioni di completezza: era uno scaffale sempre aperto di libri che comprava solo per leggere (non importa se poi non ci riusciva), molto lontano dalle perversioni venerative per l''oggetto libro' degli autentici bibliofili. Le sue riscritture testimoniano il rispetto che aveva per la parola e per le tecniche letterarie che usava come armi per colpire emotivamente il lettore. Perché un libro, e ciò è evidente nei classici, si capisce a fondo quando ci coinvolge personalmente, quando vi ritroviamo una parte di noi, un frammento disperso o dimenticato della nostra anima.

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