07/09/2013

TRA LE PIEGHE DEL SILENZIO. Sinfonia con parole

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C'è un inizio che chiamiamo desiderio e, quasi senza rumore, diviene necessità: ascoltare il silenzio, nella sua essenza risuonante. Dentro questa convinzione è cresciuta l'idea ardita e funambolica di condividere con altri la possibilità di esperire l'ascolto di qualcosa che non abbiamo abitudine a vivere, lontano dal frastuono verbale del nostro quotidiano. Silenzio di parole, silenzio nelle profondità di un'esplorazione soggettiva e collettiva, metafora di una ricerca lontana che affonda le radici nella scelta della solitudine, ma anche nella vita comunitaria dei primi cristiani, nei monaci buddisti come nel samādhi induista. Padre Bianchi è la guida che ci conduce in questi territori; l'ascolto riguarda il tempo registrato e vissuto a Bose, all'interno di una comunità che dal silenzio trae ispirazione.
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«La più grande disgrazia per l'umanità è che non sa stare in silenzio e solitudine». Enzo Bianchi prende quasi per mano il folto pubblico («E ti stupisci? È padre Bianchi», sussurra una signora in fila a un'amica) del Chiostro di Santa Paola, e lo conduce "Tra le pieghe del silenzio". A ben vedere, si tratta di un viaggio che è un po' un ossimoro: come descrivere il silenzio se non attraverso le parole? Il suono si produce per vibrazione dell'aria, e siccome non possiamo vivere senz'aria non avremo mai un mondo privo di suoni. Non resta perciò che ascoltare il silenzio nella sua natura dissonante a partire dai nostri silenzi abitati, quei momenti in cui condensiamo paure e sogni, angosce e preghiere.
Padre Bianchi, su cui si focalizza l'unica luce della serata oltre a quella di un fuoco acceso, è seduto a una scrivania: non guarda il pubblico ma sfoglia appunti e scrive. Dai fogli, e dalla meditazione, prende la forza e gli spunti necessari per la sua riflessione, molto suggestiva visto il buio, i suoni difficilmente identificabili (passi? Cani? Una penna che gratta un foglio?) che inframmezzano le sue parole. È quasi un progressivo innalzamento dall'uomo a Dio, passando attraverso i demoni della notte che infestano gli incubi dell'uomo, l'amore, il lavoro, la vecchiaia e la morte. Il silenzio è innanzitutto «spazio silenzioso, deserto ululante perché abitato da demoni che urlano»: ascoltarlo permette di scovarci «presenze, buone o cattive, per riconoscerle e prepararci a combatterle». Il silenzio è anche una voce profonda, che bisogna esercitarsi ad ascoltare per capire «come ci abita lasciandolo emergere»: non c'è nessuna creatura, come scriveva San Paolo, che non abbia una voce. Ascoltare il silenzio ci permette di individuarla come alternativa al mutismo, di cui si può anche morire perché è chiuso e impermeabile, e «renderlo vivo».
Il silenzio poi, aggiunge il priore della Comunità di Bose, si applica anche ad altro: «È il linguaggio dell'amore, che in un bacio umanizza molto più che il linguaggio della parola, ed è il linguaggio operoso del lavoro, come quello delle mani che fanno e costruiscono». Ed è un compagno naturale della vita degli uomini anziani, preannuncio della «nostra dimora nella morte». È anche la forma di comunicazione che Dio sceglie per noi?, si chiede infine provocatoriamente monsignor Bianchi: «Chi, o Signore, è muto come te?», chiosa citando la Bibbia ebraica e riprendendo quanti hanno visto nelle tragedie di Auschwitz, dei gulag, dei totalitarismi un impenetrabile silenzio di Dio. Ma spesso non è Lui a essere muto bensì noi a essere sordi, e come tutti i sordi ci giustifichiamo dicendo che gli altri sono muti. Spesso siamo noi a essere «incapaci di ascoltare, perché Dio ci parla con il suo silenzio». Il silenzio, insomma, non è mai solo mancanza di voce, di parole, di segni che ne violano la superficie: «Può essere un segno di vita ma va imparato. È umanissimo ma anche divino, una risorsa per avere una comunicazione più autentica».

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