08/09/2017

DALLA STANZA 629

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Quando si lavora settanta ore alla settimana in un affollato studio legale di New York, difficilmente si riesce a conciliare la passione per la scrittura con la giurisprudenza. L'inglese Jonathan Lee, che dal verde Surrey natio si è da tempo spostato a vivere nella Grande Mela, è stato descritto dal "Guardian" come «una delle più interessanti nuove voci della letteratura britannica». Possiamo allora ritenerci fortunati se, nel 2009, ha deciso di prendersi sei mesi sabbatici per dedicarsi alla stesura del suo primo libro ("Who is Mr. Satoshi?", non ancora tradotto in italiano), scintilla che ha acceso una carriera in costante ascesa. Interessato all'umanizzazione di personaggi troppo spesso ridotti a caricature, nelle opere di Lee il peso della narrazione si sostiene autonomamente, senza il bisogno della Storia, che funge unicamente da cornice. Così è anche per la sua ultima fatica, "Il tuffo", romanzo che segue le vite di uomini pieni di insicurezze durante la preparazione dell'attentato dell'IRA al Grand Hotel di Brighton nel 1984, tema che in patria ha sollevato numerosi dibattiti. D'altra parte «i libri che non si prendono rischi non sono libri, ma pezzi di carta rilegata». Lo incontra il giornalista Stefano Salis.
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L'acclamato scrittore britannico presenta "Il tuffo".

Inghilterra, 12 ottobre 1984.
L'Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) fa esplodere una bomba al Grand Hotel di Brighton, dove è in corso il congresso del Partito Conservatore Britannico. Muoiono cinque persone e la stessa Margaret Thatcher - allora Primo Ministro - rischia di restare gravemente ferita.
Finisce così il romanzo "High Dive" di Jonathan Lee (in Italia "Il tuffo", edito da Sur). Niente spoiler: nell'incontro di presentazione del romanzo con il giornalista Stefano Salis a Festivaletteratura è proprio lo scrittore britannico a raccontare questo episodio per introdurre il libro.
«Questo romanzo è nato nel 2005, dopo gli attentati di Londra, dove vivevo al tempo - racconta Lee - e da una riflessione: perché quando si vuole raccontare una tragedia, che sia un disastro ambientale o un attentato terroristico, si parla sempre solo di quello che viene dopo? Non sarebbe meglio interrogarsi su quello che c'era prima, sul perché certe cose succedano?».
"High Dive" in inglese significa 'tuffo dall'alto', un'immagine che descrive esattamente il ritmo e il senso di questo romanzo: Lee ci racconta un dramma prima che questo si consumi, in tutto l'arco precedente all'impatto finale.
«Il titolo nasce anche dalla mia ossessione per la caduta e da un racconto che mi fece una persona che era in quell'hotel la notte dell'esplosione: quest'uomo fu svegliato di soprassalto dal boato, mentre con il suo letto precipitava nel vuoto, il buco creato dalla bomba nel pavimento» dice Lee.
Un tuffo nel vuoto che è anche metafora della vita dei personaggi del romanzo, vite piccole, insignificanti, chiuse sulle proprie preoccupazioni banali e sui propri orizzonti ristretti: c'è Moose, vicedirettore dell'hotel in trepidante attesa di una promozione; c'è Dan, militante dell'IRA responsabile dell'attentato, cresciuto negli ambienti indipendentisti di Belfast. E poi c'è Freya, la figlia adolescente di Moose, receptionist per la stagione estiva, indecisa su cosa fare della propria vita dopo il liceo.
«Freya è il personaggio più emblematico per capire quello che volevo raccontare - spiega l'autore - Quando ero giovane e facevo dei lavoretti estivi non vedevo l'ora che finissero perché ero divorato dalla noia. Vivevo nell'attesa che accadesse qualcosa, anche qualcosa di brutto, pur di vincere questo tedio. E questo è proprio quello che vive Freya, quello che viviamo noi nella nostra vita quotidiana quando ci concentriamo troppo su noi stessi».
Paragonato a Muriel Spark e Martin Amis, considerato dalla critica una delle voci più promettenti della letteratura anglosassone e consacrato dal pubblico internazionale con la traduzione in diverse lingue di questo romanzo (che è il suo terzo, i primi non sono tradotti in Italiano e si intitolano "Who is Mr. Satoshi?" e "Joy"), Jonathan Lee non ritiene la sua un'opera politica: «Tutti i romanzi sono a loro modo politici - conclude - ma a me piacciono le storie specifiche, le vite individuali».

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