11/09/2004

Siri Hustvedt


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Sia che scriva dell'incapacità di vivere come condizione esistenziale, dell'isterica ricerca di una propria collocazione nel mondo ("La benda sugli occhi") o delle relazioni tra amicizia e amore, arte e creatività, dolore e perdita, che costituiscono gli intimi intrecci di una doppia saga famigliare ("Quello che ho amato"), Siri Hustvedt sa coinvolgerci a fondo perché i suoi romanzi ci sorprendono, ricchi come sono di misteriose emozioni e svolte imprevedibili. Come scrive Salman Rushdie, la sua scrittura «ipnotizza, stimola e disturba». La incontra al Festival il giornalista Antonio Monda.

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Arriva stranamente in ritardo la domanda che tutti aspettavano. Ma comunque arriva, e lei ne sembra quasi sollevata. Sottolinea, con un certo piacere, che quando si sono sposati, lei e Paul Auster, suo marito non era lo scrittore affermato di oggi. Ed evidentemente non lo era nemmeno lei. Certo, in molti confessano di essere arrivati ai suoi romanzi grazie all'affettuoso consorte, ma Siri Hustvedt non è più un nome in seconda di copertina sulla "Trilogia di New York" o su "La musica del caso", e sia lei che i lettori che si sta conquistando ne sono consapevoli. Alta e bionda, affascina il pubblico con una riflessione a tutto tondo sull'arte, rivelando una concezione personale della letteratura, e così della vita. Racconta del desiderio 'selvaggio' di scrivere che la ha accompagnata fin dall'adolescenza e di una prima determinante lettura di "David Copperfield", della passione per la pittura e in particolare per "La tempesta" di Giorgione, e di una fame, spirituale e fisiologica, di un vuoto da riempire, che la 'costringono' a dedicare numerose ore al giorno alla scrittura. Tutti ingredienti che ha riversato in "What I loved", appena uscito in Italia, una saga familiare ambientata in un sottosuolo intellettuale, quello di New York, che sia lei che il marito conoscono sicuramente bene, e su cui hanno spesso gettato uno sguardo impietoso, e di cui legge un breve, avvolgente, estratto.

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