09/09/2007

LA GLOBALIZZAZIONE DELLE VITE


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Con "Eredi della sconfitta", considerato tra i migliori esempi di romanzo dell'era post 11 settembre 2001, Kiran Desai non è solo la più giovane vincitrice nella storia del Booker Prize: è anche la rappresentante di una nuova schiera di narratori 'globali' che sanno raccontare il senso di estranietà e incertezza che pervade tanta umanità, attraverso le vicende di personaggi per i quali la normalità dell'esistenza appare come un privilegio negato. La intervista lo scrittore e giornalista Enrico Franceschini. 

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Kiran Desai, 35 anni, indiana, la più giovane vincitrice del Booker Prize (premio per cui è stata più volte finalista anche la madre Anita), può essere considerata come l'esempio vivente di multiculturalismo. Vive infatti tra New York, Londra e l'India e la sua esperienza di multiculturalità è splendidamente raccontata in "Eredi della Sconfitta". Il libro è una 'storia globale', il racconto, nato dopo 8 anni di stesura, dei sotterranei e invisibili collegamenti che esistono tra i vari mondi e culture in cui si trova a vivere un'immigrata. Una riflessione sulla perdita, che ricorda la storia della sua famiglia, ma che, nonostante tutti i suoi peregrinamenti, l'ha avvicinata ancora di più alla sua India, il solo paese che le offre quella «profondità storica ed emotiva» che la spinge a scrivere. Se per madre si ha Anita Desai, scrittrice indiana vincitrice di numerosi premi letterari (tra cui il "Grinzane Cavour" nel 2005), le strade da prendere non sono che due, quasi obbligate: distanziarsi quanto più possibile da un modello di riferimento così (involontariamente) ingombrante, oppure seguirne le orme, nel tentativo di farcela, riuscire, forse addirittura far meglio. Kiran Desai, trentacinque anni, indiana di nascita ma migrante fin da piccola verso gli Stati Uniti, ha scelto di impegnarsi, di provarci: riuscendo a vincere nel 2006 quel premio che sua madre ha per ben cinque volte sfiorato ma non raggiunto, il Booker Prize, per "Eredi della sconfitta", vantando anche il titolo di autrice più giovane ad aver ottenuto un simile riconoscimento. Kiran Desai arriva a Mantova per l'ultima giornata del festival, intervistata al Palazzo di San Sebastiano da Enrico Franceschini, giornalista e scrittore, da quasi vent'anni corrispondete all'estero de "La Repubblica". "Eredi della sconfitta", romanzo di formazione che spazia dalla tragedia alla commedia, in cui i molti personaggi riflettono sulla sconfitta, ha in sé elementi autobiografici: quelli di una storia fatta di spostamenti, ritorni, che Kiran porta scritta nel proprio DNA. Un romanzo maturato lentamente: per ben otto anni la Desai ha continuato a lavorare, scrivendo migliaia di pagine per poi affinare, tagliare, ridurre, partendo dalla propria esperienza di migrante 'privilegiata' per allargare lo sguardo fino a comprendere quella meno fortunata, spesso non voluta, di tutti gli invisibili delle grandi metropoli, coloro che senza volerlo sono costretti ad affrontare il viaggio come forma, paradossale, di sopravvivenza. Kiran è una vera figlia dei nostri tempi, fatti di scambi e spostamenti continui: incarna la globalizzazione della vita senza sforzo, con fare naturale, perché oramai non stupisce più vedere dividere l'esistenza in tanti frammenti sparsi qua e là. Desai si divide tra India, Inghilterra e Stati Uniti, riuscendo a sentirsi a casa in tutti i luoghi e in nessun luogo, incapace di legarsi per sempre ad una 'casa' particolare (specie negli Stati Uniti, specie dopo il secondo mandato di Bush) ma capace di affezionarsi ad una città in base all'umore, al sentire del momento. La Desai 'è' molte lingue, molte culture fuse assieme, ma il suo rapporto con l'India si è rafforzato nel corso del tempo: la scrittura, in questo senso, l'ha aiutata a capire quanto fosse forte il bisogno di rimanere attaccata ad una realtà tanto complessa, ricca di storia quale quella indiana, aiutandola a diventare indiana in modo molto più consapevole. Anche il rapporto con la lingua delle origini è cambiato: dopo anni, la Desai ha compreso che l'inglese, idioma dell'istruzione, della formazione, della famiglia, non riesce comunque a rendere la complessità della cultura indiana. L'idioma imperfetto, limitato, l'inglese solo in minima parte rende le sottigliezze del linguaggio indiano, fatto di mille voci diverse, di dialetti multicolori, finendo per essere un semplice, imperfetto, strumento di traduzione. Imprescindibile una domanda sul rapporto che una giovane scrittrice ha con una mamma dalla simile, bellissima professione: un rapporto che, se non ben gestito, avrebbe potuto provocare problemi, screzi. E invece no: quello tra Anita e Kiran Desai è stato 'fortunato', bello nelle diversità, nel loro appartenere a generazioni che con la scrittura hanno avuto rapporti speculari, complicato il primo, molto più semplice ed immediato quello di Kiran. Un rapporto così bello che dalla sua forza ne è nata un'interessante collaborazione artistica: se nel primo romanzo, "La mia nuova vita sugli alberi", Kiran ha deciso di essere indipendente, affermando così la propria creatività, è stato nel secondo lavoro, più introspettivo, che l'appoggio e la guida materna sono divenuti importanti, fondamentali. Non si ritrovano spesso a parlare di lavoro, è vero, ma in una casa di scrittori l'atmosfera e la luce saranno sempre sature di parole, pensieri, idee: in una parola, unica. Tutti noi vorremmo, almeno per una volta, poter fare una visita in un posto così.

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