06/09/2008

Boris Pahor con Piero Dorfles

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«Boris Pahor è sopravvissuto. Non posso penetrare nel suo cuore, ma sembra essere uscito da quella necropoli veramente vivo, nel pieno senso del termine» (Claudio Magris). Boris Pahor, triestino, è uno dei massimi esponenti della letteratura slovena e candidato al premio Nobel. Sull'esperienza dei campi di concentramento ha scritto nel 1967 "Necropoli", il libro che lo ha reso famoso in tutta Europa e che solo quest'anno in Italia è riuscito ad ottenere il meritato riconoscimento. Molte delle sue opere restano a tutt'oggi non tradotte nel nostro paese, pur essendo Pahor cittadino italiano. Lo incontra il giornalista Piero Dorfles.
 

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Italiano
Boris Pahor, 85 anni compiuti, dopo aver descritto la spietata analisi della deportazione nazista in "Necropoli" si considera comunque un ottimista. Eppure quando il pubblico gli chiede se l'Europa sia stata vaccinata dagli anni del nazismo risponde citando Albert Camus, che parlava di «peste»: «Prima si credeva che ci sarebbe stato bisogno di un secolo per guarire da questa peste, ma finora è avvenuto il contrario, si è cercato di dimenticare. Un mese dopo la nostra liberazione è stata fatta esplodere la bomba atomica, un metodo più rapido della dissenteria per sterminare persone. Poi c'è stato il Vietnam e ancora l'America del sud». Una sintesi per dire che tutto ciò che è avvenuto dopo la dittatura nazista, è stato negativo. Presentato da un puntualissimo Piero Dorfles, Boris Pahor ribadisce però di essere un ottimista, anche se ragionandoci sopra gli viene difficile «se si pensa di fare del bene bombardando l'Iraq c'è poco da sperare, se non nel fatto che ci sia un altro presidente americano».

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