10/09/2009
DUE POETI E L'AFRICA
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Timothy Wangusa interpreta nel senso più autentico della tradizione africana il ruolo del poeta come voce della coscienza popolare e testimone di un sapere collettivo antico. Il suo canto si leva per l'Uganda, patria dal destino 'che sgomenta', ma ha in realtà un respiro panafricano. Nelle vicende tragiche del suo paese, segnato dall'alternarsi di regimi parimenti crudeli, l'autore di "Inno per l'Africa" legge il segno di una storia ciclica e circolare che investe l'umanità intera. Lo incontrano il poeta albanese Gezim Hajdari e il critico Andrea Gazzoni.
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Nella cornice dell'Atrio degli Arcieri del Palazzo Ducale parlano due poeti: l'ugandese anglofono Timothy Wangusa e l'albanese Gezim Hajdari, che scrive in lingua italiana. Il tema è l'Africa, elemento in comune nei loro scritti: il secondo ne parla come narratore-reporter o abbandonandosi all'incanto del paesaggio, mentre invece nel primo esiste un sentimento contradditorio; quello di un poeta che cerca di conciliare il ruolo di 'cantore di corte' che deve appoggiare il regime, e quello di narratore, col compito di osservare oggettivamente la realtà che lo circonda e, a volte, attaccare il potere. E così, i due poeti si confrontano, mostrando al pubblico i diversi e polivalenti aspetti di un mondo così vicino a noi, eppure ancora così poco conosciuto. Perché parlare di Africa con Timothy Wangusa e Gezim Hajdari? Mentre per il primo, poeta e scrittore ugandese, l'accostamento è immediato, per il secondo, poeta e saggista albanese, forse ci sarebbe qualche difficoltà. Invece, come apprendiamo dall'approfondita e completa analisi di apertura di Andrea Gazzoni, Hajdari è molto legato all'Africa e proprio di un viaggio in Uganda parlano alcune sue poesie recenti. Inoltre, molte esperienze vissute in questo viaggio, danno lo spunto allo scrittore albanese per ricordare anche la propria esperienza nazionale, con il regime comunista prima e con la strana forma di democrazia odierna. Differenza molto importante tra i due autori risulta essere proprio l'approccio che hanno con il potere. Wangusa, molto critico nei confronti dei regimi che si sono susseguiti in Uganda (non risparmiando neanche l'attuale governo), è tuttavia sempre rimasto in qualche modo legato al potere in carica, ricoprendo diverse cariche pubbliche. Hajdari invece paga con l'esilio la sua opposizione ai gruppi di potere che si sono susseguiti in Albania. La visione della realtà del poeta africano può essere una spiegazione valida di questa apparente contraddizione: era inevitabile che certe situazioni di conflitto accadessero in Africa, un continente sempre al centro di scontri tra civiltà a causa del colonialismo. Inoltre nei suoi scritti è presente la ciclicità degli eventi: chi era visto come un liberatore, poi si è sempre trasformato a sua volta in dittatore. Per l'autore è necessario quindi celebrare l'umanità in tutte le sue forme, anche senza dare risposte definitive, perché tutti alla fine possiamo essere migliori. Hajdari invece risulta essere molto più passionale quando diventa testimone di certe situazioni e prende sempre posizioni forti nei confronti della realtà. Addirittura arriva al punto di essere talmente emozionato da «non trovare metafore per descrivere l'Africa» o «non riuscire a descrivere quello che sta vedendo». Forse due modi diversi di scrivere quindi, di rapportarsi alla realtà. Ma le emozioni che provocano mentre leggono alcuni brani che raccontano l'Africa, alla fine dell'incontro con il pubblico di Festivaletteratura, sicuramente sono entrambe di una forza che solo il continente nero può ispirare.