12/09/2009
L'INCREDIBILE STORIA DEL "CERVELLO CHE LEGGE"
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«Gli esseri umani non sono nati per leggere», perché leggere, fra le invenzioni umane, è quella che più di tutte ha costretto il cervello a programmarsi per qualcosa di assolutamente nuovo e molto più complesso che riconoscere suoni, gusti e odori. Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista, ci racconta l'eccezionale trasformazione del «cervello che legge», dall'invenzione della scrittura alla lettura su computer, dagli ideogrammi agli alfabeti sillabici e approfondisce - grazie ad importanti studi sulla dislessia - il modo in cui si forma la capacità di leggere nei processi di apprendimento dei bambini. L'autrice di "Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge" ne parla con Raffaele Cardone e Stefano Salis.
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Cosa succede al cervello che legge? E cosa a quello che non legge? Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista, racconta l'evoluzione della mente umana di fronte all'invenzione della lettura. L'autrice ha presentato l'ultimo libro, "Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge", venerdì 12 settembre alle 14.30 presso il Teatro Ariston. L'importanza che la letteratura ha a livello neurologico è stata dimostrata scientificamente, soprattutto per i nuovi collegamenti cerebrali che l'attività di leggere crea tra le diverse aree della «materia grigia». Ciò permette al cervello di andare oltre se stesso, di creare strati di significato che senza la lettura non ci sarebbero e che costituiscono la base per un pensiero che dona nuove potenzialità all'essere umano. La Wolf parla anche dei vantaggi e svantaggi del mondo di Internet. Oltre al bombardamento informativo la rete telematica impedisce di rendere proprie le informazioni raccolte, a causa della smania di velocità ed efficienza che si ha di fronte allo schermo di un computer. La cosa più grave, secondo la neuroscienziata, è che il lettore perde la capacità di chiedersi che cosa veramente gli sia rimasto di quella determinata lettura. Accenna poi al mondo della dislessia, affermando: «Non sono i dislessici che non sono in grado di imparare, ma noi che non siamo capaci di insegnare».