09/09/2011

LA BUONA ARCHITETTURA AIUTA A VIVERE MEGLIO?

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Ma a che cosa serve veramente la buona architettura? In un momento storico in cui tutto sembra evaporare e in cui ogni confine si assottiglia, che senso può ancora avere il progetto dello spazio e dei luoghi per migliorare la nostra vita? Cino Zucchi è uno dei migliori autori della nuova generazione di architetti italiani ed europei; progettista, docente, polemista appassionato, con la sua opera sta cercando di ridefinire i confini ed i limiti di un'arte in cerca di nuova identità per il futuro. Dialoga con lui Luca Molinari, curatore del Padiglione Italia alla 12°; Mostra Internazionale di Architettura di Venezia.
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Per l'appuntamento con Cino Zucchi, presentato da Luca Molinari, l'aula magna è gremita, alcuni si sono addirittura sistemati sulle gradinate. Il discorso intrapreso dagli ospiti è molto ampio, tocca molti temi, che spesso si commette l'errore di non considerare complementari all'architettura. «In effetti- ammette Molinari- il titolo è un po' provocatorio», si vuole parlare non solo della 'buona architettura' (definita buona da chi, viene da chiedersi), ma più specificatamente degli effetti che questa ha sugli spazi frequentati da persone comuni. Le signore di paese ad esempio, non cercano una trovata estrema di un seguace del design futuristico, ma piuttosto un luogo dove spettegolare in pace con la vicina di casa. Un'altra caratteristica dell'architettura è che deve sopravvivere al tempo: «Si può vivere tranquillamente in una casa del '500 e contemporaneamente lavorare sul proprio Ipad 2». Non manca lo spazio per una critica al Belpaese. «Come mai in Italia - ci si chiede - abbiamo i centri storici più belli d'Europa e le periferie più brutte?». La colpa non è certo degli architetti. Riferimenti a cose e persone sono puramente casuali. Ovviamente.

Per Luca Molinari l'architettura contemporanea è un argomento spesso impopolare, soprattutto in Italia. E l'architetto è visto come colui che sfida, degradandola, la bellezza del territorio circostante. Il senso di pericolo e di riserva che il pubblico mantiene nei confronti del nuovo è dato, afferma l'architetto Cino Zucchi, da una concezione di produzione del tutto particolare e che l'architettura non può assecondare. Se pensiamo alla Panda pensiamo ad una vettura unica che però rimane aperta ad un ventaglio di possibili personalizzazioni, la Tacchini per i tennisti, la Abart per i più sportivi, la 4x4 per chi ama la campagna, ecc... Il modello è unico ma resta aperto, variabile, declinabile. in termini di forma e funzione si dirà che la funzione rimane la stessa mentre la forma può cambiare. L'architettura no, la sua forma è una e tale rimane nel tempo. Malgrado questo l'architettura deve essere flessibile. Il problema è il come. Se nella vettura la variabilità e la flessibilità rimangono nella forma, l'architettura può vantare qualcosa di più ricco: la variabilità della funzione. Pensiamo a Santa Sofia, ai vecchi mattatoi di Tolosa diventati museo d'arte contemporanea o a centri commerciali dismessi che oggi diventano università. 
Questa flessibilità della funzione incarna la risposta ad una domanda che ci si pone dai tempi di Sullivan. La forma segue la funzione o la funzione segue la forma? Detto in termini più quotidiani: l'architettura detta lo stile di vita o lo stile di vita detta l'architettura? Cino Zucchi evoca storici attici romani in cui oggi si gira nelle stanze con l'iphone in mano. La vera architettura è quella che segue gli stili di vita, in cui la funzione non solo è secondaria alla forma ma addirittura capace di accogliere nuovi comportamenti. Bisogna però fare attenzione alla flessibilità totale che può rivelarsi erronea perché rischia di annullare il suo dialogo con la forma. Il Miracolo architettonico si manifesta nella sopravvivenza ai cambiamenti del tempo e in una forma che rimane aperta alle metamorfosi della storia. 
Non bisogna dimenticare una questione molto sottile: l'architettura vive di tempi lunghi pur essendo a contatto con la brevità della vita dell'uomo. La sua è una situazione difficile, perché un'architettura, che sia chiesa, museo o ospedale, vive in uno spazio tra se stessa e l'uomo. Ogni architettura è pubblica in questo senso, e si esprime in un interfaccia tra il cittadino che la vive e la città che la incorpora. La flessibilità allora si nutre di questa dimensione debole che è un reciproco adottamento tra l'uomo e l'edificio. Il balcone infine ne è l'estrema e la più raffinata metafora: zona in limine tra il dentro e il fuori, il cui lo sguardo pubblico penetra nel privato e attraverso cui il privato si getta sul pubblico.
Sotto questo aspetto "la città ideale" del Laurana non è affatto perfetta visto che bandisce l'altra metà di se stessa, colui che la rende eterna e flessibile, l'uomo.  

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