06/09/2012

Cristina Alziati con Nella Roveri

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Cristina Alziati, laureata in Filosofia a Milano, vive a Berlino ed è traduttrice dal tedesco e dallo spagnolo. Ha esordito nel '92 in antologia con una silloge poetica presentata da Franco Fortini. La prima raccolta, "A compimento" (2005), stabilisce l'orizzonte delle sue scelte tematiche. «...Io sono fatta invece/ di questo non scrivere giorno per giorno;/ dentro il sedimentarsi delle piccole/ cose, e delle grandi, sono/ l'anima ingombra del loro farsi mute», testimoniata nella più recente raccolta "Come non piangenti". La parola poetica è per lei l'approdo di un lungo cammino che, attraversando la storia e la cronaca, brucia le scorie e ripristina l'essenza. La incontra Nella Roveri.
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Italiano
Una volta attraversato il chiostro avvolto di una bellezza lieve nelle dieci del mattino, ci appare in fondo alla Sagrestia di San Barnaba Cristina Alziati: scarpe cinesi di vellutina - quelle che a Berlino portano tutte le donne, le ragazze, le bambine - e occhiali nuovi, capelli grigi - «i riccioli della chemio» - l'accortezza che la poesia comporta nei movimenti, gambe "accavallate molto", attorte su se stesse: «intorno vegetazione, mi tengo per mano».
Il pubblico è lentamente rapito da un sobbalzare misurato, accompagnato dalle musiche di Marco Remondini - violoncellista allo sbando (come ama definirsi), che tra registrazioni di galli e grilli pizzica e soffia, accompagnando perfettamente la conversazione silenziosa: la lettura. Sembra d'iniziare a correre con un magone, scartando il metro, ma con un ritmo costante, giusto, con antitetica dolcezza, o meglio 'dulcedine': termine - mutuato direttamente dal latino da Franco Fortini - che rappresenta il simbolico pedaggio da pagare per attraversare l'Acheronte. Come ha scritto Daniele Piccinini sul "Corriere della Sera": «c'è il gesto di isolare un termine oppure di sovvertire l'ordine della sequenza, non per artificio, ma per un'aritmia in cui trova spazio un diverso respiro. È, quello, il luogo di una visione; lì culmina una parola che è sì politica, ma anche profetica, integrale, educata alla castità».
Sempre sotteso è il richiamo all'angelo benjaminiano, l'Angelus Novus: una religiosità intima, personale, trovata dentro di sé -
«riposando in se stessi» come scrive Etty Hillesum. Raccogliere dei frammenti, avanzi che compongono tensione, fino al resto ultimo: dio. Cresciuta nel proprio grembo, la poesia di Alziati è una poesia stratificata, fino al momento in cui l'esprimersi diventa necessario, è una poesia portata a compimento, partorita, non vissuta come atto volontaristico: non azione, ma gesto. Poesia che si riversa all'esterno come un'esondazione, premendo il senso a estrudersi in parola, creando e superando progressive e trasparenti recinzioni.
A volte si avverte un pacato senso di sacrificio, che ci ricorda quello più straziante (e straziato) di Tarkovsky. Offret: l'offerta, la casa che brucia ripresa soltanto dagli occhi della troupe e non dalla lente della telecamera - per sbaglio, un errore fatale, il sacrificio finalmente compiuto e la reiterazione nel piccolo modello, come una 'casa di bambola' ibseniana. In Alziani la perdita - di senso, di futuro, di possibilità - sembra invece superata: la tragedia si risolve nobilmente nel presente, dimensione che accoglie il passato e il futuro e diventa il tempo della trasformazione, indipendente dalla meta ultima, sperata. La sua poetica però ci suggerisce ancor più profondamente il senso di salvezza - di redenzione laica - che avvertiamo alla fine del "Film Rouge" il terzo della trilogia "Trois Couleurs" di Kieślowski.
La non-appartenenza è un altro tema ricorrente: «Tu stai proprio all'inizio, io in quelli tutti attorno». E dalla "Terza lettera ad Antigone": «Non fosse per i vestiti - per gli stracci - / diremmo che è uno del gruppo, fra quelli / ridenti, uno vivo».

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