08/09/2012

NOI

2012_09_08_144
Il gioco, la strada, le fughe, gli amori, persino il carcere creano dei legami che vanno ben al di là del sangue e della genetica. Nascono così fratelli e sorelle d'elezione, frutto di ginocchia sbucciate, confidenze, corse, esperienze di vita vissute come un parto condiviso. Così succede ai protagonisti dei romanzi di Michela Murgia, come il recente L'incontro, e a quelli dell'esordiente Sandro Bonvissuto (Dentro), dove la scrittura riesce a dare voce a quel 'noi' difficile da spiegare ma non da sentire.

L'evento 144 ha subito variazioni rispetto a quanto riportato sul programma. Originariamente il suo svolgimento era previsto presso il Teatro Ariston.
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Italiano
C'è un 'noi' che piace e un 'noi' che piace poco. Un 'noi' che accoglie e fa da rifugio, ma anche un 'noi' che chiude tutte le relazioni con chi è diverso, con chi è altro. La differenza, però, è molto sottile e sempre sfuggente. Con facilità si può scivolare nell'accezione negativa del termine e lasciarsi andare addirittura al razzismo nei confronti di chi è diverso, appunto, da noi. Partiamo quindi dal modo di sentirsi gruppo proprio dell'infanzia, della prima adolescenza. Forse l'unico che non prevede malizia, è sincero e per questo descritto dai due autori durante il dialogo a Palazzo S. Sebastiano, Michela Murgia e Sandro Bonvissuto. Il sentimento che è alla base delle prime amicizie, delle prime compagnie, quando si hanno 12 o 13 anni, quando si rimane insieme nelle lunghe giornate estive. Possiamo fare riferimento anche a film famosi come "Stand by me", "I Goonies" o il relativamente nuovo "Super 8", per capire (naturalmente in maniera drammaticamente incompleta) quello che significa questo rapporto che nasce a quell'età. Poi purtroppo si diventa grandi e il 'noi' si disintegra, prende strade diversissime e comincia a volte a spaventarci e a farci riflettere. Si comincia ad utilizzare il 'noi' per scaricare le responsabilità individuali, si perde l'innocenza. Nasce il diverso da me, il diverso da noi. La comunità rimane accogliente, ma prevede la distinzione drastica rispetto all'altro, a chi non appartiene a quella comunità. La consapevolezza dell''io' prevede l'inesorabilità del 'noi', e quindi la separazione rispetto agli altri. Possono quindi esserci un sacco di 'noi', noi di Pontida, noi bianchi, noi cristiani, non sempre propriamente esempi positivi di convivenza civile. Forse è davvero grazie all'affettività, al sentimento puro, che si può tornare ad un rapporto positivo con il noi. Perché il pericolo è proprio quello di scivolare nello IUS, nelle regole di appartenenza, di identità. L'appartenenza come volontà di essere, nonostante le proprie singolarità. E il confine rispetto all'altro si sposta sempre più avanti, ovunque non ci sia l''io'. Territorio, identità, cittadinanza. Non si può negare che ognuno cerchi il proprio posto, insieme ad altri, nel mondo. Anche il Festival può essere un luogo di aggregazione che noi scegliamo per corrispondenza di intenti. Addirittura il libro può diventare un luogo simile. Le storie generano spazi che costruiscono un noi. Si crea una cittadinanza interiore. Nelle cose più concrete, la salvezza di questa concezione comunitaria sta nella consapevolezza che il noi si debba frantumare continuamente, essere messo sempre in discussione. Perché una volta bloccata, la cittadinanza diventa una trappola per l'animo umano. Non è un caso che nei bar non si discuta più delle notizie del giornale ma si giochi al video poker, che non ci siano più le sedi locali dei partiti, le panchine per sedersi e chiacchierare. Il Festival in questo senso diventa per questo un luogo politico (nel senso greco del termine), un luogo veramente comune. Probabilmente in questa eterna lotta di significati dell'appartenere, dell'essere noi, avremo sempre dei grossi problemi a stabilire cosa questo possa significare, in base al tempo, allo spazio, alla comunità. Ma le storie riescono bene ad essere una difesa a favore del noi buono, perché lo metteranno sempre in discussione e in questo modo lo faranno sempre rinascere senza farlo diventare razzismo e ignoranza. Il problema allora diventa: che storia sta raccontando l'Italia. Non sempre la risposta lascia intravedere speranza.

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