06/09/2013
ASCESA E CADUTA DI GIOVANI ARRAMPICATORI GLOBALI
2013_09_06_087
«Scrivo perché scrivere mi permette di esplorare le tensioni che convivono dentro di me». Le tensioni che lo scrittore anglo-pakistano Mohsin Hamid traspone nelle pagine dei suoi romanzi, rispecchiano le precarietà esistenziali e identitarie di un'epoca come la nostra, in cui tutto risulta ugualmente possibile e incerto. Ne "Il fondamentalista riluttante" aveva raccontato l'inattesa trasformazione, di fronte al crollo delle Torri Gemelle, di un giovane pakistano felicemente integrato nel mondo dell'alta finanza americana. Nel recentissimo "Come diventare ricchi sfondati nell'Asia emergente", Hamid sceglie il continente asiatico come scenario della rapida ascesa sociale del suo spregiudicato protagonista, costretto dal fallimento e dalla malattia a ripensare a ciò che conta davvero nella vita. Lo incontra lo scrittore Marco Mancassola.
L'evento 087 ha subito variazioni rispetto a quanto riportato sul programma.
Originariamente il suo svolgimento era previsto presso Palazzo San Sebastiano.
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Originariamente il suo svolgimento era previsto presso Palazzo San Sebastiano.
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«Se vuoi diventare ricco sfondato, non innamorarti... l'amore spegne il cuore, il motore propulsore verso la scalata finanziaria...».
È attraverso questi consigli che Mohsin Hamid cerca di dare aiuto al protagonista del suo ultimo romanzo "Come diventare ricchi sfondati": l'amore e i sentimenti allontanano dal proprio obbiettivo, distraggono e rendono deboli, la debolezza non fa parte del piano di arrampicata e ascesa. Eppure, a ben leggere, il romanzo stesso - nonostante il titolo, nonostante l'atteggiamento e l'andamento - è un romanzo finemente impregnato d'amore. Tutto parla di sentimenti: è un 'romanzo sentimentale', nel senso letterale del termine, i sentimenti ci sono ed emergono prepotenti - il riso come le lacrime, la gioia come il dolore, la nostalgia come l'amore stesso. E allora dove si nasconde il gap? Quel cortocircuito tra una dichiarazione d'intenti e una sua esatta negazione? L'apparente imbroglio risiede nella forma stessa del romanzo, in quel suo appartenere al genere dei 'self-help books' - i libri di auto-aiuto.
Lo scrivere, per l'autore, diviene quella sorta di 'terapia' in grado di controllare, mediare e curare la propria esistenza, un'esistenza in cerca di aiuto. 'Aiuto': già in sè questa parola racchiude amore, attenzione e cura. Ma se l'attenzione dello scrittore è rivolta in primis a se stesso, non può che diffondersi quindi a cascata anche sull'esistenza del suo protagonista come sulle vite di tutti i personaggi. Personaggi che non possono poi ovviamente svicolarsi dal contesto e dalla società in cui si muovono, pensano e agiscono, (a tal proposito la domanda di Marco Mancassola sul costruire prima un personaggio o descrivere una società, sembra molto ingenuamente fare il verso al ben noto 'viene prima l'uovo o la gallina?').
E la 'terapia' funziona? Lo scrittore non corre il rischio di scivolare in una pratica egocentrica, in un crogiolarsi narcisistico di esaltazione del proprio ego? Certo il rischio è reale, e la possibilità di inciampare in tali errori è molto alto. Eppure sta proprio qui la sfida stessa del romanzo e del suo autore.
Ma l'azzardo funziona, riesce e si sviluppa in una forma narrativa complessa strutturata sull'uso della seconda persona singolare, una buona dose di ironia e il repentino cambiamento del punto di vista. Stilisticamente, la scelta del tu appare piuttosto strana, eppure permette l'instaurarsi di molteplici relazioni: quella dello scrittore con il proprio io, quella dello scrittore con il protagonista e i diversi personaggi, quella dello scrittore con il lettore ed infine quella del lettore con i personaggi. Il tu quindi crea ponti, relazioni e infonde immediatezza: apre alla possibilità. A quella possibilità, a quella opportunità che fa nascere l'uso sapiente dell'ironia.
«Ad apertura del libro io e il mio lettore ancora non ci conosciamo, le relazioni ancora si devono formare, tutto è in divenire, in potenza, proprio come quando si entra in un bar per la prima volta. Se appena seduto iniziassi a sommergere di parole e chiacchiere la persona accanto a me, questa presto se ne andrebbe annoiata e infastidita. Ma se invece, lentamente e pacatamente iniziassi con una battuta, quest'ultima forse rimarrebbe seduta ad ascoltarmi perché incuriosita, e così la conversazione e quindi la conoscenza potrebbe proseguire. Ecco, nel mio romanzo avviene la stessa cosa: l'ironia iniziale porta alla progressiva conoscenza reciproca, conoscenza che mi permetterà in seguito - nelle pagine successive - di scendere più in profondità e complicità con il lettore.» Mohsin Hamid attraverso l'immagine del bar spiega bene la modulazione dell'ironia e lo svilupparsi dei diversi rapporti.
Ironia, scelta della seconda persona singolare, ma anche la creazione del personaggio contribuisce a rendere il romanzo un'opera che muove i sentimenti. Tutti i personaggi di Mohsin Hamid sono personaggi 'vivi', reali - compresi quelli femminili. Sono personaggi creati non sulla carta, ma plasmati nella carne: l'autore infatti si approccia ad essi esattamente come un attore si prepara per entrare nella sua parte. Egli deve capire cosa provano, deve carpirne il carattere, sapere cosa e come pensano: l'autore immagina di essere lui stesso il personaggio, immagina di comportarsi esattamente come lui, pensa di vivere la sua vita. Ma l'uomo e la donna reali non hanno personalità semplici e lineari, caratteri classificabili e racchiudibili in facili etichette: l'uomo e la donna - e quindi i personaggi - sono una costellazione di componenti, di caratteri e sfumature che purtroppo non sempre sono in equilibrio tra di loro. Ecco quindi che il self-help book si manifesta ancora secondo il suo scopo: aiuta e da sollievo tanto allo scrittore quanto al lettore sull'incapacità di districare la propria personalità talvolta complessa e oscura. E' così: noi non siamo e non abbiamo un'unica identità, ma siamo un crogiuolo di elementi.
E a tal proposito è davvero significativo il pensiero di Mohsin Hamid sul falso bisogno, creato dalla nostra società moderna, di dover per forza scegliere un'unica identità centrale: l'autore de "Il fondamentalista riluttante" preferisce non dover scegliere, optando per la condizione di 'disadattato' ('misfit') perché «...solo così posso davvero capire che tanti sono simili a me».