05/09/2014
IL POPOLO CHE MANCA. Nuto Revelli: immagini, parole, ricordi
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Nuto Revelli ha dedicato la propria vita a raccogliere le voci dei dimenticati. Le storie che raccontano soldati, pastori, contadine, preti-stregoni che parlano attraverso le pagine dei suoi libri (L'anello forte, Il mondo dei vinti) ci restituiscono il potente affresco di un mondo che non c'è più, testimoniando una cultura arcaica, tenace, legata alla terra, definitivamente annientata in seguito alla rapida industrializzazione che l'Italia ha conosciuto nel secondo dopoguerra. A dieci anni dalla scomparsa, Antonella Tarpino, curatrice del volume Il popolo che manca, il figlio Marco e il giornalista Corrado Stajano, amico di una vita, raccontano a Festivaletteratura la figura e l'opera di Nuto Revelli attraverso letture, documenti fotografici e memorie personali.
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Italiano
Come possiamo definire Nuto Revelli? Intellettuale, storico, scrittore... «Geometra», si autodefinisce in un'intervista registrata l'autore scomparso. In verità, fu davvero un narratore eccezionale che fece della sua storia personale un punto di partenza fondamentale per le sue opere. Ce la racconta il figlio Marco e una breve intervista video della RAI. Infanzia vissuta interamente nell'Italia fascista, giovane del littorio che frequenta convinto l'accademia militare e poi parte per la campagna di Russia. Ed è qui che la sua esistenza subisce uno strappo, che separerà per sempre il 'prima' e il 'dopo'. Durante il viaggio inizia a capire la verità guardando la realtà tragica che gli scorre davanti. Sopravvive. Ritorna, e subito passa con i partigiani in montagna. Alla fine della guerra si inventa una nuova vita e inizia a scrivere. Come Primo Levi, come Rigoni Stern. Una necessità quella dello scrivere, quella di ricordare ciò che è stato. "Il popolo che manca", naturale conclusione del suo lavoro, è la storia, il racconto di un popolo che sta scomparendo in un mondo travolto dalla modernità. Antonella Tarpino, curatrice del progetto, descrive con passione il lavoro intrapreso da Nuto. La quasi ossessione nel raccogliere con un magnetofono le testimonianze delle persone della campagna cuneese. Sempre in ascolto, sempre per imparare. La guerra sullo sfondo, come ferita mai rimarginata e pronta a riaprirsi. Anche le due vite di Nuto in questi racconti si fondono. Perché anche la realtà contadina è una guerra. Nel lavoro duro della campagna e nella modernità che avanza e distrugge queste nostre radici. I soldati-contadini che perdono di nuovo, sconfitti prima in Russia e poi dimenticati e travolti dall'industrializzazione. Testimoni, ancora una volta sopravvissuti. Con il rispetto dell'ascolto silenzioso nei confronti di questi veri 'intellettuali rovesciati'. In una catarsi continua tra il narratore e il narrante che condividono lo stesso destino. Il mondo che viene fuori da queste registrazioni non è più solo quello piemontese, ma diventa quello dell'Italia intera, del mondo, in un tempo sempre uguale e sempre diverso. Pieno anche di streghe, di superstizione, di religione, di fatica, di lavoro, di morti, di malattie, di guerre. Come prosegue l'amico Corrado Stajano, un ritratto 'dal basso' del '900. E un debito pagato ai compagni morti, perché non vinca il silenzio un'altra volta. Una memoria che bisogna capire e conoscere per affrontare il nostro presente. «Un bagno collettivo di memoria», come viene definito, per un mondo che stava finendo e anche un po' di rabbia nei confronti di un mondo moderno e vacuo che lasciava morire colpevolmente questa realtà. Perché la memoria non è una zavorra, ma il fondamento di quello che siamo. Se la perdiamo, perdiamo anche noi stessi.