07/09/2007
DAI NOSTRI INVIATI IN MEDIO ORIENTE
2007_09_07_059
Raccontare la storia mentre accade. Questo dovrebbe essere il primo dovere di un giornalista, soprattutto in un'area tormentata e difficile come quella mediorientale. Robert Fisk, corrispondente in Libano di "The Indipendent" e autore di "Cronache mediorientali", e Amira Hass, corrispondente per il quotidiano israeliano "Ha'aretz", ci raccontano che cosa significa svolgere questo delicato lavoro sotto il fuoco della guerra e tra le menzogne degli apparati ufficiali di informazione. Dialoga con loro il giornalista Ugo Tramballi.
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Robert Fisk e Amira Hass sono giornalisti che vivono nelle storie che raccontano. Fisk risiede in Libano, la Hass ha scelto di rimanere nei territori palestinesi occupati, ed è l'unica giornalista israeliana ad aver compiuto questa scelta. Parlano di guerra entrambi, e i loro ambiti di interesse potrebbero essere visti come dei cerchi concentrici, dato che il conflitto arabo-israeliano viene considerato il fulcro di quella guerra che ormai investe tutto il mondo arabo, in un territorio che al momento esclude solo Cina, India e parte della Russia. Questa considerevole parte della superficie terrestre coinvolta da conflitti è infatti ambito di indagine di Fisk. Dalle loro testimonianze, sollecitate dalle domande del collega Ugo Tramballi, e riportate con opposto atteggiamento (vigoroso e pieno di trasporto quello del giornalista britannico, pacato e misurato quello della Hass) si evince un filo conduttore: tutte le persone da loro incontrate hanno sempre chiesto giustizia, non democrazia. Eppure non è questo il prodotto della civiltà da noi esportato, così come non è certo per questo che siamo impegnati in queste guerre con i nostri eserciti. E lo stesso vale per la libertà che cerchiamo di dargli, senza capire che la prima forma di questo diritto cui auspicano è proprio la libertà da noi. Le grandi emittenti dell'informazione pretendono di essere obiettive nel riportare l'attualità, ignorando che l'unica qualità che veramente conta nel giornalismo è quella dell'onestà. I giornalisti sono esseri umani, ricorda Fisk, e come tali, in virtù dei loro sentimenti, dovrebbero essere le terminazioni nervose del pubblico lettore così come delle parti in causa. Eppure la nostra tv e i nostri giornali continuano ad illudersi di essere arbitri di una partita in corso cui bisogna dedicare il 50% del proprio interesse in virtù della tanto celebrata e impossibile imparzialità. È sempre strano ed emozionante sentir parlare quelle persone, come i giornalisti di questa mattina, che sono tutti i giorni a contatto con gli abitanti e la realtà delle zone in cui sono in corso conflitti armati. E nel nostro caso parliamo di Libano, Israele, Gaza. Robert Fisk, inviato in Libano di "The Indipendent" e Amira Hass, giornalista israeliana, intervistati da Ugo Tramballi del "Sole 24 Ore", hanno raccontato per più di due ore cosa sta succedendo in Medio Oriente e la loro esperienza di inviati di guerra. A fare da cornice, un paesaggio insolitamente bello, Campo Canoa, verde, assolato e tranquillo, che spinge alla riflessione sulle parole di Fisk: «Non riesco ad essere ottimista sulla situazione del Medio Oriente: quando mi sveglio nella mia casa di Beirut apro la finestra, guardo il mare che sciaguatta, le palme che si agitano al vento e mi chiedo da che parte verrà l'esplosione oggi». Non c'è ottimismo nemmeno secondo Amira Hass che ci descrive gli Israeliani sempre più decisi ad impossessarsi di territori palestinesi e sempre più impegnati a limitarne la libertà di scelta. Certo, prima o poi uno stato palestinese ci sarà, ma le sue autorità si occuperanno di acquistare potere agli occhi dei governi stranieri, reinterpretando il messaggio religioso a loro favore, ma non faranno il bene del proprio popolo, non partiranno dal basso risolvendo i problemi della gente. Insomma, un po' ciò che è successo con il Processo di Oslo: un vero fallimento per quanto riguarda la pace in Medio Oriente. Durante il Processo la parola 'pace' era diventata sinonimo di 'corruzione': Al-Fatah pagava le persone che appoggiavano il Processo, che andavano alle conferenze sulla pace. E se i Palestinesi hanno scelto Hamas di loro spontanea volontà nelle prime elezioni democratiche, non è stato un errore, ma una presa di posizione nei confronti di ciò che stava succedendo con Al-Fatah, sostenuto da noi Occidentali tanto calorosamente. Non meno importante, ad aggravare la situazione, è il comportamento di molti Israeliani nei confronti dei Palestinesi: non soltanto c'è la violenza materiale che si concretizza nel continuo strappare territori ai Palestinesi, ma c'è anche la violenza linguistica, per la quale i territori 'occupati' diventano 'contestati' (dove in realtà non c'è contestazione ma solo usurpazione). E la democrazia e i diritti umani tanto cari a noi Occidentali, dice Fisk, dovrebbero passare in secondo piano, cedere il passo a libertà e giustizia, i veri bisogni di questi popoli. Questa non-democrazia (non si può imporre la democrazia) non è altro che una falsa maschera crepata dietro la quale nascondere meri interessi economici, che ci fa comodo e non ci costringe ad assumersi responsabilità nei confronti di ciò che sta accadendo, lasciandoci sereni e tranquilli di fronte al disastro che stiamo combinando.