09/09/2009
L'ALTRA FACCIA DELLA SHOAH
2009_09_09_007
Tra il 1941 e il 1944, circa un milione e mezzo di ebrei che vivevano in Ucraina, in seguito all'invasione tedesca dell'Unione sovietica, sono stati assassinati dai colpi di fucile delle unità mobili delle SS o delle polizie collaborazioniste dell'Est europeo. Il fenomeno dello sterminio degli ebrei per fucilazione non è mai stato ricostruito in modo sistematico, ed è rimasto fino a oggi poco studiato. Padre Patrick Desbois ha ripercorso le tracce di questo olocausto sconosciuto, ritrovando i testimoni di terrificanti massacri. Dialoga con l'autore di "Fucilateli tutti!" Frediano Sessi, studioso della Shoah.
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All'incontro svoltosi al Teatro Ariston dal titolo "L'Altra Faccia della Shoah", padre Patrick Desbois (autore di "Fucilateli tutti!") dialoga con lo studioso Frediano Sessi. Desbois iniziò a documentarsi sullo sterminio già in tenera età, suo nonno infatti fu preso dai nazisti e portato nel campo di sterminio di Rawa-Ruska; successivamente iniziò a ripercorrere il tragitto delle truppe tedesche attraverso testimonianze locali, per la quasi totalità rese per la prima volta fuori dalle aule dei tribunali. Il libro di Desbois racconta di coloro che hanno visto, e magari collaborato, per convinzione o per forza, agli stermini di massa, perché «non possono essere colpevoli solo quei novecento assassini nazisti». Nel 2004 si recò nel paese dove fu condotto suo nonno sessant'anni prima, Rawa-Ruska, intervistandone gli abitanti; il passo successivo compiuto da Desbois fu quello di portare i testimoni sui presunti luoghi degli eccidi, per poi iniziare gli scavi nelle fosse comuni, ritrovando inoltre bossoli tedeschi (che hanno la data di costruzione incisa) e documenti d'indentità. Sessi fa notare che il libro non cade mai nella pietas nel descrivere le morti: non è più un discorso politico, ma storico; alla richiesta di descrivere le sensazioni affrontate nel rinvenimento dei cadaveri, Desbois dice di essere stato costretto a udire lo stesso grido 'del sangue di Abele' per ricostruire la storia d'Europa. Sua Volontà è far si che tra vent'anni nessuno possa dimenticarsi degli ebrei fucilati a cielo aperto. Conclude infine, rispondendo a una domanda del pubblico, con una riflessione: «se uccidi una persona è un delitto, se ne uccidi centomila è prima di tutto un problema politico, che verrà prima discusso all'Onu e poi magari affrontato». Un milione e mezzo. È questo il numero stimato da padre Patrick Desbois (autore di "Fucilateli tutti!"): un milione e mezzo di ebrei fucilati in Ucraina dalle truppe tedesche delle SS, durante la seconda guerra mondiale. L'interesse di Desbois per questi ebrei gettati nelle fosse comuni, di cui si è persa la memoria, iniziò in tenera età: erano ancora vivi in lui i ricordi del nonno, deportato dai nazisti nel campo di sterminio di Rawa-Ruska. Da allora, soprattutto dopo l'ordinazione sacerdotale, ha collaborato con la fondazione Yanad-In Unum, associazione che promuove il dialogo fra ebrei e cattolici, per restituire alla memoria la storia della 'Shoah a cielo aperto' degli ebrei: i luoghi delle collocazioni delle fosse comuni erano sconosciuti agli studiosi dell'Olocausto. A differenza della prima fase dello sterminio di massa, iniziato con l'invasione della Russia nel 22 giugno 1941, in cui i carnefici inseguivano le vittime, questa seconda fase vide le vittime condotte da persone a loro vicine, magari concittadini, davanti ai loro assassini. Le truppe del Sonderkommando o Einsatzgruppen si affidavano infatti ad abitanti del posto per cercare gli ebrei, per poi condurli in luoghi appartati, far loro scavare le fosse e fucilarli. È quella che Desbois chiama «guerra di uomini comuni contro uomini comuni», in ossequio al motto «una pallottola, un ebreo». Desbois iniziò a ripercorrere il tragitto delle truppe tedesche attraverso testimoni locali, spesso sacerdoti come lui, ucraini e bielorussi. Il grande contributo di questo ricerca è dato dal fatto che la quasi totalità delle testimonianze è resa per la prima volta fuori dalle aule dei tribunali dopo sessant'anni: iniziarono così per padre Desbois e la sua equipe gli scavi per ritrovare le fosse, poi richiuse spesso ricorrendo a coperture di cemento, per evitare profanazioni future. il libro di Desbois non è dunque solo di importanza storica, ma dà spazio a quella 'zona grigia' di primoleviana memoria: racconta di coloro che hanno visto, e magari collaborato, agli stermini di massa; anche perché, spiega Desbois, «non possono essere colpevoli solo quei novecento assassini nazisti»: è la prima volta che queste 'persone comuni' raccontano quanto fecero da ragazzi, per convinzione o per forza. Dopo questa breve introduzione da parte dello storico Frediano Sessi, Desbois racconta i propri ricordi abbastanza emozionato: è la prima volta che parla in Italia; è abituato a tenere conferenze negli Usa, in Germania e in Francia. La sua avventura iniziò quando, nel 2004, si recò nel paese dove fu condotto suo nonno sessant'anni prima, Rawa-Ruska. L'incontro con il sindaco del luogo non fu propriamente positivo: le richieste di Desbois non furono ascoltate, in quanto la locazione delle fosse comuni «è segreta». Non fu questo rifiuto a scoraggiare il sacerdote: egli iniziò infatti ad intervistare gli abitanti del luogo, dapprima un centinaio. A poco a poco gli anziani iniziarono a ripercorrere quei pomeriggi passati in compagnia delle SS: si scopre così che in un giorno furono fucilati 1500 ebrei; nessun'archivio parla di questi episodi, come lo stesso Desbois ha avuto modo di constatare parlando con un collega americano che consultò personalmente gli archivi Russi, comprati dagli USA nel 1992. Il passo successivo compiuto da Desbois fu quello di portare i testimoni sui presunti luoghi degli eccidi, per poi iniziare gli scavi coadiuvato da colleghi e metal detector. Scopo del sacerdote non è mai stato quello di compiere interviste sentimentali e venne aiutato nel suo intento dalla struttura della lingua russa, rigida e fredda. In seguito, il ritrovamento dei bossoli tedeschi (che hanno la data di costruzione incisa) e degli stessi cadaveri (alcuni con ancora indosso le carte d'identità) confermarono le sue teorie. Sessi fa notare che, a questo proposito, il libro non cade mai nella pietas per descrivere le morti. Ormai non è più un discorso politico come negli anni ottanta, ma un discorso storico. Inoltre, aggiunge lo storico italiano, è arrivato anche il momento di abolire le espressioni edulcorate come 'industrie della morte' che da anni sono usate nei testi per descrivere l'Olocausto: chiede dunque a Desbois di descrivere le sensazioni affrontate nel rinvenire i cadaveri. Il sacerdote risponde con una citazione biblica: come nella Genesi si racconta del 'grido del sangue di Abele' udito in ogni angolo della terra, così Desbois dice di essere stato costretto ad ascoltare quel grido per ricostruire la storia d'Europa. Lo stesso Hitler giustificò lo sterminio dicendo che, in quel periodo, «nessuno ricordava lo sterminio degli armeni»: volontà di Desbois è far si che tra vent'anni nessuno possa dimenticarsi degli ebrei fucilati a cielo aperto. Interessanti e sentite anche le domande dal pubblico: ci si chiede perché un problema come quello del collaborazionismo non sia mai affrontato dagli Stati che l'hanno vissuto. Desbois spiega che nell'Europa dell'Est non si dovrebbe parlare di 'collaborazionismo' in quanto «gli stessi ucraini parteciparono direttamente, uccidendo e rubando». Un ultimo intervento per riflettere sulla sindrome che colpisce gli uomini: ci si commuove per le catastrofi passate e si è ciechi di fronte a quelle attuali. Desbois spiega che è propria delle persone la capacità di «dormire tranquilli quando c'è un genocidio»; al giorno d'oggi il problema sussiste perché «se uccidi una persona è un delitto, se ne uccidi centomila è prima di tutto un problema politico, che verrà prima discusso all'Onu e poi magari affrontato». Desbois si congeda con un piccolo aneddoto ironico: durante una sua conferenza, uno spettatore gli fece notare che, udendo questi racconti, non riuscì più a dormire, la notte. Desbois spiegò che, dunque, «era un'ottima notizia».