12/09/2009

PALESTINA ISRAELE 1967 - 2007: FOTOGRAFIE


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Nell'era della comunicazione multimediale e in un mondo sovraccarico di immagini, in che modo approssimarsi allo spazio fisico degli accadimenti e immortalare la realtà nel suo farsi può favorire la genesi di un archivio condiviso, la costruzione di una storia per immagini? In "Atto di Stato", Ariella Azoulay - docente di arti visive e di filosofia contemporanea - ha raccolto una mole impressionante di documenti fotografici relativi all'occupazione israeliana, ribadendo la rilevanza dell'intreccio tra fotografia e storiografia. Per sfuggire alla spettacolarizzazione della violenza e per sottolineare l'importanza di uno sguardo analitico sugli eventi, la studiosa dialoga con Maria Nadotti, giornalista e saggista da tempo impegnata nella diffusione di opere inerenti al conflitto israeliano-palestinese.

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Nella sala del Seminario Vescovile il pubblico di Festivaletteratura, anche quest'oggi numeroso, è venuto ad assistere ad una storia lunga trent'anni, una storia i cui tasselli sono fotografie, ritratti o paesaggi quasi sempre desolanti, palazzi accartocciati su sé stessi, famiglie in fuga, cittadine cancellate dalla furia di un popolo che non riesce ad uscire dal tunnel della violenza. Ariella Azoulay è una docente di filosofia e di arti visive, ma prima di tutto è una di quelle israeliane illuminate che cerca di trovare un appiglio, un filo, come quello che guidò Teseo fuori dal labirinto mostruoso del figlio animale di Pasifae. I risultati della sua ricerca sono le oltre settecento foto che compongono il volume "Atto di Stato". Tra le tante che le scorrono dietro ce n'è una, formidabile, definitiva, è un'inquadratura che un fotografo israeliano ruba da un camion che, in un'alba come tante degli anni '70, porta un carico di ragazzini palestinesi a lavorare in Israele, la terra che li ha scacciati, ma che di loro ha bisogno per continuare a vivere industrialmente. C'è un verso di una canzone di Fabrizio De André che mi risuona in mente mentre fisso, nella foto, gli occhi di uno di quei bambini. Avrà al massimo dodici anni e guarda in macchina con gli occhi ancora socchiusi dal sonno, mente sembra «capire chiaramente che se quello era il fuoco, lui doveva essere legno».

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