10/09/2011

Hisham Matar con Elisabetta Bartuli

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«Matar scrive divinamente. Quando evoca un mondo di mari e gelsi è sensuale; quando descrive arresti ed esecuzioni capitali è un acuto osservatore che ha il dono di trasmettere tutta la loro crudezza e assurdità» (Kamila Shamsie). Con "Nessuno al mondo" Hisham Matar si è imposto all'attenzione del pubblico e della critica internazionale, entusiasmando romanzieri navigati del calibro di J. M. Coetzee e Anne Michaels. Costretto a vivere la condizione dell'esule a causa delle persecuzioni subite dalla sua famiglia, l'autore libico ha interpretato nei suoi scritti (non ultimo il recente "Anatomia di una scomparsa") il desiderio di libertà che alimenta le rivolte del mondo islamico. Dialoga insieme a lui l'arabista e traduttrice Elisabetta Bartuli.
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Hisham Matar è uno scrittore libico e questo è un fatto in sé. Soprattutto in Italia, dove fino a pochi anni fa anche la scena letteraria di quel Paese, tradotta in lingua, era dominata dall'ingombrante figura di Muammar Gheddafi, dal suo "Libro verde" o da suoi divertissements. Niente di imperdibile. Niente di altrettanto potente delle righe di Hisham Matar, da cui il pubblico di Festivaletteratura è rimasto irrimediabilmente affascinato oggi, nel cortile del Palazzo di San Sebastiano. 
Tra le lezioni del secondo risveglio arabo, quella di Matar entra nel profondo della dimensione personale dello scrivere. Punto di partenza è sempre il non sapere: è il libro a decidere cosa succederà, a stabilire cosa vuole da te. L'incipit deve essere, dunque, precario, per mantenere l'autore (e il lettore) dentro alle pagine e non al di sopra, nella posizione privilegiata di chi conosce già il 'dopo'. Così si procede, come se si stesse «ballando con un estraneo». 
Ma la scrittura è anche fatica, e l'autore di "Nessuno al mondo" - finalista al Man Booker Prize - ci tiene a sottolineare cosa si nasconda dietro al lungo sforzo che dà vita ad un romanzo. Il problema è sempre il troppo, qualcosa da togliere più che da aggiungere. Qui sta l'essenza della sua poetica, vicina all'incisività della produzione in versi anche nell'atto di spiegarsi alla platea sempre più incantata: non si tratta di un lavoro di compressione, ma del tentativo di «scrivere il silenzio». Quel silenzio che pervade la scomparsa, al centro del suo romanzo più recente. A mancare è il padre dell'autore, Jaballa, oppositore del regime di Gheddafi, arrestato nel 1990 e, da allora, 'assente'. 
Una scomparsa che è, anche, quella della voce del popolo libico, delle famiglie, degli studenti, zittiti dalla repressione e dalla paura dei 'nemici della nazione', instillata da una dittatura che, come tutte, usa la violenza per nascondere la fragilità di un controllo senza vera legittimazione. Di nuovo, dunque, il silenzio: troppo distante, impensabile per noi occidentali, è la Libia degli anni Cinquanta e Sessanta, che l'autore descrive come sferzata dalla prezzata dell'internazionalismo, dell'apertura e non dell'isolamento. 
Ammoniti, infine, sulla nostra memoria così sfuggente quando si parla degli orrori dell'occupazione coloniale - gli stermini, la segregazione - riportiamo la chiusura di Hisham Matar, che guarda, con ferma speranza, al futuro. Al ripristino di un dialogo tra persone e 'come persone', innanzitutto tra italiani e libici, senza il condizionamento degli interessi, della corruzione e della politica ademocratica. Quella sì, speriamo, scomparsa. 

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