05/09/2013 - Le pagine della cultura
LE PAGINE DELLA CULTURA
2013_09_05_PC0900
Che cosa ne sarà domani delle pagine culturali, quando molti giornali saranno probabilmente scomparsi e altri si saranno definitivamente trasferiti sulla rete, entrando in concorrenza con nuovi spazi - meno controllati e più partecipati - di critica, promozione, confronto, proposta? Festivaletteratura inizia le sue giornate proprio da Le Pagine della Cultura, cercando di capire - con l'aiuto di alcuni degli ospiti internazionali presenti a Mantova - quali sono le riflessioni, i libri, gli eventi artistici che stanno catalizzando l'attenzione dell'opinione pubblica nelle diverse aree del pianeta e soprattutto come sta cambiando il modo di raccontare la cultura, stanti le trasformazioni in atto nel mondo dell'informazione.
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L'atmosfera dell'incontro è da subito accogliente, intima: i partecipanti, accorsi numerosi con lauto anticipo nonostante l'orario mattutino, sfogliano interessati le pagine culturali di diverse testate. Jumpa Lahiri, protagonista dell'evento, è una donna di origine indiana che ha inaugurato una brillante carriera vincendo nel 2000 il Premio Pulitzer con la sua prima raccolta di racconti intitolata "L'interprete dei malanni". Entrambi i motivi dei premi letterari e della forma narrativa del racconto breve si rilevano fondamentali nel corso dell'appuntamento.
Affiancata dal giornalista Alberto Notarbartolo, la scrittrice commenta una serie di articoli, scelti principalmente dal New York Times, che hanno fra loro in comune la tematica della natura illusoria e arbitraria dell'arte, il complesso rapporto fra autore e pubblico e la questione assai problematica di cosa permetta ad un'opera d'arte di raggiungere la notorietà.
Il primo articolo tratta del 'problema' di possedere troppi libri; Lahiri, da un anno trasferitasi a Roma, racconta la differenza fra il suo appartamento di Brooklyn, stipato di volumi, e quello romano, di cui ama gli scaffali vuoti. L'oggetto-libro viene dunque presentato in una duplice modalità: è il 'materiale più importante' ma allo stesso tempo a volte soffocante per i suoi insistenti richiami al passato.
Il secondo estratto si inserisce più propriamente nella dimensione critica verso il mondo dell'arte: denuncia il fenonemo della 'claque', gruppo di persone selezionate e stipendiate per esaltare o distruggere la carriera di artisti del palcoscenico, particolarmente crudele nel teatro moscovita Bolschoi. La questione sorge spontanea: queste persone, probabilmente appassionate di arte, riescono ancora a goderne nonostante la loro presenza fissa a teatro, che impone loro di rivedere lo stesso spettacolo più e più volte o si sono definitivamente trasformate in una catena di montaggio?
Il tema dell'illusorietà dell'arte, e a questo punto anche dell'apprezzamento da parte del pubblico, si collega direttamente al terzo articolo che ha posto l'interrogativo su quanto la suggestione giochi nella nostra reazione ad un libro, e più in generale ad un'opera d'arte; come esempio Lahiri ha raccontato la gaffe di un importante giornalista del N. Y. Times che liquidò il racconto di un autore sconosciuto, sotto il cui pseudonimo si nascondeva Doris Lessing. L'importanza data alla celebrità dalla nostra società perveda anche il mondo dell'arte: in una libreria siamo più portati a scegliere l'opera di un grande autore a discapito degli scrittori emergenti, lasciandoli nell'anonimato. Sull'arbitrarietà dell'arte, e in special modo dell'industria che vi sta dietro, Lahiri ha insistito ulteriormente, racontando prima le difficoltà da lei incontrate per pubblicare il suo primo manoscritto (la forma del racconto viene purtroppo spesso etichettata come 'di serie B') e poi passando all'argomento dei premi letterari. L'autrice sostiene di 'aver bisogno dell'anonimato per poter scrivere' e di vivere il successo come una tensione fra il vivere della propria passione e una tremenda responsabilità.
Il pericolo di restare schiavi di 'etichette' è stato il tema del quarto articolo, in cui il giornalista J. Lanchester, parlando della serie fantasy "Game of Thrones", paragona l'intero genere fantasy al sindaco di una piccola città: conosciutissimo nel suo territorio, un illustre sconosciuto altrove.
Al termine dell'intervento, l'autrice ha risposto ad alcune domande del pubblico: da semplici dichiarazioni di ammirazione a questioni più propriamente professionali o biografiche. Lahiri ha spiegato il suo profondo interesse per il microcosmo familiare, con le sue complessità e tensioni e un terreno fertile per la letteratura, definendolo affascinante perché inspiegabile e indecifrabile.
Affiancata dal giornalista Alberto Notarbartolo, la scrittrice commenta una serie di articoli, scelti principalmente dal New York Times, che hanno fra loro in comune la tematica della natura illusoria e arbitraria dell'arte, il complesso rapporto fra autore e pubblico e la questione assai problematica di cosa permetta ad un'opera d'arte di raggiungere la notorietà.
Il primo articolo tratta del 'problema' di possedere troppi libri; Lahiri, da un anno trasferitasi a Roma, racconta la differenza fra il suo appartamento di Brooklyn, stipato di volumi, e quello romano, di cui ama gli scaffali vuoti. L'oggetto-libro viene dunque presentato in una duplice modalità: è il 'materiale più importante' ma allo stesso tempo a volte soffocante per i suoi insistenti richiami al passato.
Il secondo estratto si inserisce più propriamente nella dimensione critica verso il mondo dell'arte: denuncia il fenonemo della 'claque', gruppo di persone selezionate e stipendiate per esaltare o distruggere la carriera di artisti del palcoscenico, particolarmente crudele nel teatro moscovita Bolschoi. La questione sorge spontanea: queste persone, probabilmente appassionate di arte, riescono ancora a goderne nonostante la loro presenza fissa a teatro, che impone loro di rivedere lo stesso spettacolo più e più volte o si sono definitivamente trasformate in una catena di montaggio?
Il tema dell'illusorietà dell'arte, e a questo punto anche dell'apprezzamento da parte del pubblico, si collega direttamente al terzo articolo che ha posto l'interrogativo su quanto la suggestione giochi nella nostra reazione ad un libro, e più in generale ad un'opera d'arte; come esempio Lahiri ha raccontato la gaffe di un importante giornalista del N. Y. Times che liquidò il racconto di un autore sconosciuto, sotto il cui pseudonimo si nascondeva Doris Lessing. L'importanza data alla celebrità dalla nostra società perveda anche il mondo dell'arte: in una libreria siamo più portati a scegliere l'opera di un grande autore a discapito degli scrittori emergenti, lasciandoli nell'anonimato. Sull'arbitrarietà dell'arte, e in special modo dell'industria che vi sta dietro, Lahiri ha insistito ulteriormente, racontando prima le difficoltà da lei incontrate per pubblicare il suo primo manoscritto (la forma del racconto viene purtroppo spesso etichettata come 'di serie B') e poi passando all'argomento dei premi letterari. L'autrice sostiene di 'aver bisogno dell'anonimato per poter scrivere' e di vivere il successo come una tensione fra il vivere della propria passione e una tremenda responsabilità.
Il pericolo di restare schiavi di 'etichette' è stato il tema del quarto articolo, in cui il giornalista J. Lanchester, parlando della serie fantasy "Game of Thrones", paragona l'intero genere fantasy al sindaco di una piccola città: conosciutissimo nel suo territorio, un illustre sconosciuto altrove.
Al termine dell'intervento, l'autrice ha risposto ad alcune domande del pubblico: da semplici dichiarazioni di ammirazione a questioni più propriamente professionali o biografiche. Lahiri ha spiegato il suo profondo interesse per il microcosmo familiare, con le sue complessità e tensioni e un terreno fertile per la letteratura, definendolo affascinante perché inspiegabile e indecifrabile.