07/09/2013 - Le parole del giornalismo

DAL NOSTRO INFILTRATO SPECIALE

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Per il giornalista Günter Wallraff esiste un unico modo per scoprire quello che accade oltre la nostra rassicurante e superficiale esperienza del quotidiano: mettersi nei panni di chi sta ai margini, introdursi sotto mentite spoglie in contesti di vita o di lavoro che volutamente ignoriamo. Le inchieste sotto copertura di Wallraff hanno impietosamente svelato ai lettori tedeschi le concrete discriminazioni patite dagli immigrati, il meccanismo perverso che obbliga i lavoratori di call-center a farsi complici di una truffa, come i barboni siano in gran parte lavoratori espulsi da un sistema economico brutale, e soprattutto come i valori democratici e di tutela dei diritti siano solo la crosta di una società ben diversa dall'immagine che ne abbiamo. Dialoga con l'autore di "Notizie dal migliore dei mondi" Fabrizio Gatti, autore a sua volta di indimenticabili inchieste in travestimento. Introduce Giancarlo Ghirra dell'Ordine dei Giornalisti.

con il contributo di Goethe-Institut Mailand
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Italiano
Günter Wallraff è il padre del giornalismo d'inchiesta, tanto che il verbo norvegese corrispondente al 'fare giornalismo in incognito' è proprio 'Wallraffa' (lett. 'Wallraffare'). Il reporter tedesco ha iniziato la sua carriera negli anni Sessanta, utilizzando vari travestimenti per essere assunto come lavoratore alla Tyssen Krupp (esposto senza mascherina ad agenti e inchiostri chimici), in una centrale atomica (senza protezioni) e come cavia per l'industria farmaceutica. Ha vissuto con i senza tetto e si è travestito da immigrato turco per firmare il celebre reportage "Faccia da turco" (1983). Oggi si occupa principalmente di problemi legati al 'neocapitalismo' e al nuovo mercato del lavoro, in particolare al fenomeno dei mini-jobs, molto diffuso in Germania. La Germania moderna, secondo Wallraff, si è costruita un finto mito di prosperità: di cinque lavori che nascono oggi nel paese solo uno è un lavoro 'effettivo'. Gli altri sono tutti lavori che gli americani definirebbero 'Mcjobs'; stipendi bassi con orari sfiancanti che non permettono di comprare una casa e mantenere una famiglia. Negli ultimi anni ha denunciato in particolare lo sfruttamento di alcuni impiegati di Starbucks, costretti a volte a dormire durante le poche ore libere nel magazzino del posto di lavoro. Ha anche aperto una fondazione a suo nome che si occupa di finanziare progetti d'inchiesta in incognito di giovani giornalisti. 
Quello di Wallraff è un metodo che ha fatto scuola e tra i suoi tanti 'discepoli' c'è Fabrizio Gatti. Gatti si è finto kossovaro in Svizzera, iracheno a Lampedusa e Sudafricano in Puglia. Si è spacciato per immigrato e rifugiato e ha lavorato nei campi di pomodori. Spiega che la ragione per cui molti immigrati continuano a sbarcare in Europa è senz'altro la fuga, ma anche il fatto che sia relativamente facile trovare un'occupazione, soprattutto se illegale. I suoi caporali pugliesi nei campi di pomodori si giustificavano dicendo che senza lo sfruttamento illegale degli stranieri non potrebbero fare quei prezzi e sarebbero arrivati i cinesi. Per Gatti invece il peggior nemico del capitalismo è proprio un capitalismo sregolato, che nel seguire pedissequamente le leggi del profitto svaluta i diritti per non svalutare i prezzi. 
L'opinione di entrambi i reporter è che il giornalismo stia vivendo oggi un grande momento di crisi - e le ragioni non sono economiche, ma qualitative. Sono sempre meno le testate che accettano di esporsi ai rischi economici e politici di pubblicare reportage ed inchieste di attualità. Sono anche pochi gli sponsor (che mediamente costituiscono buona parte delle entrate di una rivista) disposti a fare investimenti in questa direzione. Se il giornalismo non fosse di qualità mancherebbero tuttavia gli acquirenti - e, per questo, oggi più che mai, in un periodo di crisi, serve un buon giornalismo d'informazione che torni a rivolgersi al lettore e a fare il suo interesse. «Il compito del giornalista», afferma Gatti, «è quello di dare gli ingredienti affinché i cittadini riconoscano ciò che li circonda e abbiano il coraggio di arrabbiarsi e indignarsi».

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