07/09/2013 - Ri-Tratto

RI-TRATTO

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Laboratorio per adulti

In un ritratto c'è tutto. Ci sono i caratteri fissi (la forma del naso, il taglio degli occhi) e i segni del tempo (le rughe, le cicatrici). C'è l'umore del momento (il broncio, il sorriso) e la luce dell'ambiente. Qualcuno dice che, in fondo, ci sia anche l'anima di una persona. Per saper fare un ritratto ci vuole attenzione, ispirazione, un foglio di carta, una penna-pennarello per scrivere o disegnare, e soprattutto tecnica, mestiere. Così, anche quest'anno, Festivaletteratura ha invitato alcuni scrittori (Paolo Nori, Beppe Severgnini) e illustratori (Sergio Ruzzier) a tenere una lezione, per insegnare a tutti la sofisticata arte del ri-tratto.
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Italiano
Beppe Severgnini piomba nelle Sale del Capitano, saluta, imbandisce un aneddoto partendo dallo sponsor («La Tratto Pen! Montanelli tagliava i miei articoli con la Tratto Pen!») dal quale cava subito un insegnamento per il pubblico («I giornalisti non dovrebbero scrivere per impressionare i colleghi, ma per comunicare coi lettori») e poi brandisce un pennarello (Tratto Pen?) e, rapido, schizza un autoritratto su una lavagna. Più una caricatura che un ritratto, in effetti: spiccano il tipico casco di capelli bianchi e gli occhialoni. Severgnini gli dà un'occhiata divertita e commenta: «Un giornalista i ritratti li fa con le parole e sono uno dei generi più difficili nel suo campo». Questa la trascinante apertura dell'incontro della serie "Ri-tratto" che ha visto protagonista Beppe Severgnini. Ai partecipanti ha affidato un compito: abbozzare, nel corso dell'incontro, un suo ritratto; nel frattempo non ha mancato di dispensare consigli e aneddoti su come portare a termine la consegna. E dato che nel giornalismo la forma più vicina al ritratto è l'intervista, Severgnini tratta proprio questo genere: «Tutti credono che sia facile fare interviste, invece è difficilissimo». Ecco allora quattro punti cardinali a cui appellarsi: «Per fare un'intervista ci vuole 'PEPE': Preparazione, Empatia, Precisione ed Estrazione». Iniziamo dalla preparazione. «In Italia c'è un gran pressapochismo e siamo convinti che la nostra intuizione (paranormale!) possa supplire alla preparazione. Invece bisogna studiare - ma senza cadere nell'iperpreparazione, che porta certe mie colleghe a condurre le interviste come un bollettino durante il quale cercano conferma di tutto ciò che hanno imparato. Essere veramente preparati significa invece non dare l'impressione d'aver studiato». Passiamo all'empatia. «Creare empatia con l'intervistato è difficile. Per esempio: ho intervistato Madonna due volte in vita mia e sono stati due disastri da cui sono nate due buone interviste. Il momento peggiore durante la prima è stato quando le ho parlato delle sue origini italiane e lei è sbottata: stai cercando di dirmi che ho mani da contadina? Dieci anni dopo la cosa si è ripetuta; lì la domanda che l'ha fatta 'sbiellare' è stata: perché lei che invita le ragazze al sesso sfrenato e al consumo di droga ha una figlia che sembra una suora? Ha fatto i fuochi d'artificio!» E a proposito della precisione? «In Italia è accettata l'idea della sintesi creativa, secondo cui è concesso rielaborare la forma se i contenuti restano quelli; invece bisogna essere fedeli alle voci degli intervistati». Ed infine, l'estrazione: «Per aiutare chi legge l'intervista bisogna estrarre il succo dell'incontro, descrivere atteggiamenti e retroscena». Il laboratorio si conclude con la lettura del ritratto di Severgnini scritto da una partecipante: evidentemente i consigli sono andati a buon fine, e il testo è accolto da un'ovazione.

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