10/09/2009
Nadine Gordimer
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«Penso che quello di cui parlo in pubblico o che scrivo in un saggio non sarà mai vero come ciò che scrivo nei miei romanzi». Premio Nobel nel 1991, sudafricana, Nadine Gordimer è una delle voci più autorevoli della letteratura contemporanea. Nei suoi romanzi e racconti, caratterizzati da una notevole analisi psicologica, Gordimer ha descritto le devastazioni e i conflitti morali che la politica dell'apartheid ha suscitato nella popolazione del suo paese, rimanendo fedele alla sua vocazione di 'scrittore naturale', secondo la quale il miglior modo di servire la verità è di «scrivere meglio che può». La introduce il direttore del Festival di Hay-on-Wye Peter Florence.
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«Nella sua voce riecheggia la presenza di grandi come Mandela e Virginia Woolf»: Peter Florence, direttore del Festival di Hay-on-Wye, presenta con queste parole Nadine Gordimer, Premio Nobel nel 1991 e una delle più grandi scrittrici sudafricane e mondiali, autrice di numerosi romanzi, novelle e racconti, intervenuta al Festivaletteratura giovedì 10 alle 18:30 a piazza Castello. L'esattezza dell'affermazione di Florence e la forza che le parole della Gordimer hanno nel raccontare il vero e nel trovare ancora oggi il giusto spazio per la speranza di un futuro di felicità, si dimostrano nella lettura, che la stessa autrice fa in lingua originale, di un romanzo breve tratto da "Beethoven era per un sedicesimo nero", una tra le ultime opere della scrittrice. Un'idea, un momento, una coincidenza, secondo Gordimer, possono dare lo spunto all'autore per cominciare a raccontare una storia. Ed è successo proprio così con questo racconto, nato dall'ascolto di una trasmissione radiofonica che immaginava un Beethoven dalle origini africane. A partire da questo spunto l'autrice racconta di aver sviscerato naturalmente il racconto, che quasi le è scivolato dalla manica e uscito come se fosse stato un «uovo». Già, proprio così, un uovo al quale l'autrice sudafricana paragona il racconto breve: completo e origine della vita, contrapposto al romanzo, più simile a un viaggio e a una ricerca. «Nello scrivere un racconto breve» - racconta la scrittrice - «è necessario scendere a patti con lo spazio e saper stigmatizzare al massimo la caratterizzazione dei personaggi, cosa non semplice, ma che può offrire nuovi stimoli alla creazione». Sono le 18:30 e Piazza Castello è pervasa da un'atmosfera di solenne attesa; è certo che qualcosa di straordinario sta per accadere. Il pubblico numerosissimo aspetta Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991, con un silenzio ossequioso e rispettoso che accompagnerà l'intero evento. La grande scrittrice sudafricana, classe 1923, arriva puntuale. È vestita in un lungo e austero abito nero, minuta, ha gesti misurati e composti, e malgrado l'apparenza fragile incute un certo timore reverenziale. Non si perde in convenevoli, va subito al sodo e spiazza quando con dolcezza annuncia: «ora vi leggerò, anche se è un po' presto, una favola della buonanotte». Inizia così la lettura completa del suo racconto breve intitolato "Beethoven era per un sedicesimo nero": storia del ribaltamento di un sentimento, della rivoluzione di un'idea, di come oggi l'essere nero, anche solo per un sedicesimo, possa essere motivo di forte orgoglio, al contrario di quanto accadeva nel periodo della segregazione razziale. La sua voce è ferma e un po' pungente e mentre legge sembra voler incidere le parole su una lastra di marmo così da renderle immortali. Gli spettatori sono attenti e seguono come bravi scolari la lectio magistralis fino alla fine, quando si lasciano andare in un lungo applauso. Peter Florence poi, il direttore del festival letterario di Hay-on-Wye (Galles), che ha seguito l'amica di Nelson Mandela fino a qui, ne approfitta per interrogarla sui punti chiave della sua carriera di narratrice, sulla preferenza per la short story e su come negli anni il processo di scrittura sia cambiato, si sia fatto forse più semplice. Il racconto breve le arriva di solito già completo, risponde la Gordimer, è come un uovo con un guscio, un turlo e un albume. Richiede una forte disciplina, ti costringe a dire solo ciò che è necessario, a delineare un personaggio con poche pennellate perché non vi è spazio per la rielaborazione. «Per questo», afferma con passione, «è più simile alla poesia che al romanzo, è una forma letteraria estrema». La scrittura le è sempre risultata facile, è la sua vera voce, considerando che era solo una bambina quando scrisse la sua prima storia. Da allora sono trascorsi quasi ottant'anni, una vita intera regalata alle cause civili, alla lotta per l'uguaglianza, alla letteratura. Un'esistenza fatta anche di premi e di riconoscimenti, ma il senso di colpa è rimasto, «macchia tutti quei bianchi che, pur avendo combattuto attivamente contro l'apartheid, non possono lavare via l'onta di aver avuto privilegi». Ed è per questo che la speranza sta nelle nuove generazioni, in quei giovani bianchi e neri che frequentano ora le stesse scuole, giocano insieme, a cui vengono finalmente concesse le stesse possibilità.