07/09/2012 - Tracce
L'ARAB(B)IA DI PASOLINI
2012_09_07_TR1800
Lo scontento del poeta e il suo sguardo incantato verso il mondo arabo. Mahmoud Jaran rilegge da Oriente Pier Paolo Pasolini.
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Italiano
Come titolo per la sua traccia Mahmoud Jaran, docente e studioso dei rapporti fra il mondo occidentale e il mondo arabo, sceglie un gioco di parole: L'Arab(b)ia di Pasolini. Il riferimento, duplice, è da un lato al rapporto della produzione artistica pasoliniana con il mondo arabo, dall'altro al film documentaristico "La rabbia", curata per l'appunto da Pier Paolo Pasolini. È stato un rapporto lungo e prolifico quello fra il Pasolini regista e il mondo arabo, 'altrove'ù per eccellenza e ambientazione di molti suoi film: "Edipo re", "Medea", "Appunti per un'Orestiade africana". "La rabbia" differisce da questi anzitutto perché mostra un mondo non più classico, ma moderno; Jaran lo definisce il film «meno antropologico» di Pasolini e lo colloca sulla scia della teoria post-coloniale di Frantz Fanon e Edward Said, cioè di quel tentativo della seconda metà del Novecento di avvicinare la voce dell'altro (della periferia) a quella del centro. Ne "La rabbia", uscito negli anni dell'attivismo culturale dei principali terzomondisti, Pasolini guarda dall'esterno alla realtà dell'Italia contemporanea, con particolare attenzione al sentimento anticomunista dei giovani italiani. Con quella osservazione acuta che gli è valsa la fama di 'profeta' del (cosiddetto) post-moderno, Pasolini si sofferma nel documentario sui temi del colonialismo e del razzismo. Nella decolonizzazione di molti paesi, arabi e non, il regista riscontra fattori comuni: lo sfruttamento e la miseria della colonizzazione, la gioia della liberazione connotata a un tempo da speranze e timori. Con la sua opera il regista e poeta compone una sorta di inno di tutti i paesi decolonizzati, mettendo in guardia da pregiudizi come quello del diverso colore della pelle, che sin dall'illuminismo ha rappresentato un inquietante criterio della discriminazione razziale: «l'unico colore è il colore dell'uomo» recita la voce di Pasolini nel film. La rabbia di Pasolini è prima di tutto contro il mondo moderno e industrializzato, e implicitamente contro la non meno atroce normalità, contro il torpore omogeneo in cui l'emergenza degli anni di guerra e dopoguerra si spegne. Dopo la delusione del sottoproletariato italiano e occidentale, che Pasolini aveva scandagliato in libri ("Una vita violenta", "Ragazzi di vita") e film ("Accattone", "Mamma Roma"), nel mondo arabo l'artista scopre un altrove in cui i valori preindustriali e precapitalistici a lui cari sono conservati. Da questo «rifugio storico», come lo definisce Mahmoud Jaran, Pasolini dice di «conoscere più gli arabi che i milanesi». L'ibridismo, non solo spaziale ma anche culturale, dell'opera cinematografica e poetica pasoliniana fra nord e sud del mondo (con i decolonialisti accomunati ora a resistenti antifascisti, ora a intellettuali europei) spinge Jaran a inscrivere Pasolini tra i padri fondatori del pensiero anticoloniale. Lo stesso Pasolini, in fondo, aveva scritto: «Africa! Unica mia/ alternativa» ("Frammento alla morte", 1960).