05/09/2013

LE PAROLE DELLE DONNE. Le parole del giornalismo

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La violenza sulle donne si fa e si dice. Perché all'atto criminoso, spesso, segue un altro tipo di violenza, che si trova nel linguaggio usato dai media per darne notizia. E le parole usate non sono neutre, ma sono spesso specchio del pensiero che le esprime e, purtroppo, producono pensiero in chi le legge, confortando e influenzando l'opinione pubblica. Sul tema delicato, ma necessario, si confrontano Michela Murgia, coautrice di "L'ho uccisa perché l'amavo", e il giornalista Riccardo Romani ("Le cose brutte non esistono").
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Le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, a volte le notiamo, altre volte il nostro cervello le registra e basta, purtroppo troppo raramente ci indignano. Sono le parole che vengono usate per descrivere i femminicidi, i reati commessi sulle donne perché donne. Le parole sono importanti e tutti dovremmo usarle con maggiore saggezza, ma esistono professioni che hanno il dovere di usarle con più responsabilità, sono gli uomini e le donne che ci raccontano fatti trasformandoli in storie, sono i giornalisti.
Michela Murgia, coautrice di "L'ho uccisa perché l'amavo. Falso!" e Riccardo Romani, giornalista, si confrontano sul tema e le posizioni non sempre coincidono.
Della battaglia per il diritto delle vittime di femminicidio ad essere trattate con rispetto e per il diritto di noi lettori di leggere storie vere, Michela Murgia è protagonista da tempo, il suo sito è ricco di esempi e col tempo è riuscita a coinvolgere anche Mario Calabresi, direttore di "La Stampa". La questione è delicata e spinosa al tempo stesso, il modo in cui vengono date le notizie determina come noi le percepiamo. Generalmente vengono descritti degli incidenti non dei femminicidi e il protagonista è sempre l'omicida e mai la vittima. Si nega alla donna anche il diritto di essere protagonista del racconto della sua morte. 
Di femminicidio si parla molto, ma purtroppo non se ne parla bene. Non esiste un'emergenza femminicidi, ma una sua stabilità ed è questo il dato allarmante, perché se gli omicidi in Italia diminuiscono, ma quelli sulle donne rimangono stabili, bisogna intervenire sui fattori culturali e in questo caso non basta l'inasprimento delle pene.
Le immagini sono importanti quanto le parole e se si accompagna un articolo su una violenza con una foto di una donna in minigonna si insinua che se l'è cercata, si perpetua una cultura che vuole la donna oggetto. 
Michela Murgia propone due altri esempi: il primo riguarda uno spot del Ministero Pari Opportunità (http://www.youtube.com/watch?v=L6tsIqnqKV8): una rosa bianca in un vaso viene sporcata da gocce di inchiostro scuro finché una mano non interviene mettendola in una altro bicchiere. Lo spot, fatto sicuramente con le migliori intenzioni, evidenzia la mancanza di un'educazione all'immagine. La donna è rappresentata da una rosa bianca, un'immagine di purezza, è un fiore reciso inerme, è un oggetto decorativo, l'inchiostro è l'unico elemento attivo finché una mano, esterna alla scena, salva la rosa, che evidentemente non si può salvare da sola.
Il secondo esempio è una pubblicità dell'usato BMW dove non si vede nessuna macchina ma esclusivamente il primo piano del volto di una ragazza giovanissima e la scritta «sai di nn essere stato il primo».
Parole, immagini, stereotipi, modelli culturali.
Per Riccardo Romani il rischio invece è che il parlarne molto faccia diventare il femminicidio un fenomeno di moda che, in quanto tale, poi passi. Per Romani esistono notizie più importanti, emergenze vere di altro tipo con numeri più allarmanti e alle quali viene dato minore importanza, porta l'esempio dei migranti morti a Lampedusa. Le notizie vengono scelte e date in un determinato modo perché sono diventate un prodotto di mercato e come tale cercano un loro mercato, non c'è più relazione con la realtà. Le parole raccontano storie, formano il pensiero, e le notizie verranno date in un determinato modo finché non si deciderà che un cambiamento è necessario.

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