05/09/2013 - Blurandevù
BLURANDEVÙ. Volontari, all'intervista!
2013_09_05_BLU2230
Il percorso di appuntamenti di Blurandevù parte, quest'anno, dall'incontro con uno dei più ascoltati intellettuali del nostro tempo. David Grossman ha studiato filosofia e teatro ed è stato a lungo conduttore di un popolarissimo programma radiofonico per ragazzi, prima di affermarsi universalmente come narratore. Nei suoi romanzi, si possono trovare scintillanti avventure di ragazzini, incursioni negli universi adolescenziali, indagini sull'intima natura dell'amore (parole, corpi, gelosie), e insieme l'infinita sofferenza della sua terra, il dolore grave per la perdita del figlio. Temi, scelte di stile, fasi della vita e della scrittura su cui Grossman si confronta con i suoi giovani intervistatori.
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«C'è ancora qualcosa che volete chiedermi?». La domanda, spazientita solo per finta, conclude l'ora e mezza di evento che sottopone David Grossman al fuoco di fila dei ragazzi di Blurandevù.
E sarà per la giovane età degli intervistatori, o forse per la vera e propria ovazione con cui viene accolto, ma lo scrittore israeliano non si risparmia nel parlare di sé. La carne al fuoco è tanta, davanti a uno scrittore famoso e coinvolto anche nella narrazione di drammi come il conflitto Israele-Palestina, ed è un racconto plurivoco, dove spezzoni dei film di Bergman e Truffaut si inframmezzano a barattoli di sabbia e di erba con cui gli viene chiesto di ritrarsi scegliendo la materia che più lo caratterizza.
Le risposte di Grossman sono sempre precise e gentili, basate sulla necessità - come avrebbe detto don Gallo - di "restare umani". Si parte e si finisce con la morte, il grande mistero davanti al quale l'uomo si trova da sempre privo di risposte: quella morte che lo ha toccato da vicino con la scomparsa del figlio Uri in Libano nel 2006 e che è il primo ricordo di lui bambino quando, a una festa, ebbe la percezione concreta che tutti gli invitati sarebbero un giorno morti. E quella morte della quale lui, laico, è «riuscito a grattare l'involucro ermetico» grazie all'arte: perché solo la vera arte «tocca il momento in cui la vita e la morte entrano in contatto».
Per lui, scrittore, l'arte si esercita attraverso la parola, che nei suoi libri ha un'importanza fondamentale: «La voce umana è sia emotiva che fattuale», perfetta per la descrizione degli eventi e dei loro protagonisti. Come in "A un cerbiatto somiglia il mio amore", con un incipit privo di luci che è quasi un radiodramma e il protagonista Avram che, nella Guerra del Kippur, affida alla sua ricetrasmittente una sua idea di racconto. Quella parola che lui cede volentieri ai personaggi che gli stanno dentro: «Non è meraviglioso che i personaggi della letteratura ci costruiscano dall'interno? Io sono fortunato: sono piccolo, ma ho dentro di me uno squadrone di personaggi».
E, quando i giovani intervistatori gli chiedono di lasciare una 'parola-seme', la sua scelta cade su 'immaginazione': la qualità principale per uno scrittore che deve «creare il mondo nei suoi romanzi», necessaria per far capire ai lettori che si può «cambiare la realtà e rappresentare persino quello che non esiste», non limitandosi a considerare un unico punto di vista ma aprendosi anche a quello degli altri. Nel suo caso, quello dei palestinesi: «La terra è fondamentale, averla sotto i piedi significa avere una casa, uno Stato. Solo due Stati distinti potranno dare ai due popoli l'unica vita che si meritano: quella normale, senza umiliazioni». L'Esercito è per lui, da buon israeliano, una necessità per l'esistenza di Israele; ma «dovrebbe essere morale, non coinvolto nell'occupazione dei Territori Palestinesi».
E sarà per la giovane età degli intervistatori, o forse per la vera e propria ovazione con cui viene accolto, ma lo scrittore israeliano non si risparmia nel parlare di sé. La carne al fuoco è tanta, davanti a uno scrittore famoso e coinvolto anche nella narrazione di drammi come il conflitto Israele-Palestina, ed è un racconto plurivoco, dove spezzoni dei film di Bergman e Truffaut si inframmezzano a barattoli di sabbia e di erba con cui gli viene chiesto di ritrarsi scegliendo la materia che più lo caratterizza.
Le risposte di Grossman sono sempre precise e gentili, basate sulla necessità - come avrebbe detto don Gallo - di "restare umani". Si parte e si finisce con la morte, il grande mistero davanti al quale l'uomo si trova da sempre privo di risposte: quella morte che lo ha toccato da vicino con la scomparsa del figlio Uri in Libano nel 2006 e che è il primo ricordo di lui bambino quando, a una festa, ebbe la percezione concreta che tutti gli invitati sarebbero un giorno morti. E quella morte della quale lui, laico, è «riuscito a grattare l'involucro ermetico» grazie all'arte: perché solo la vera arte «tocca il momento in cui la vita e la morte entrano in contatto».
Per lui, scrittore, l'arte si esercita attraverso la parola, che nei suoi libri ha un'importanza fondamentale: «La voce umana è sia emotiva che fattuale», perfetta per la descrizione degli eventi e dei loro protagonisti. Come in "A un cerbiatto somiglia il mio amore", con un incipit privo di luci che è quasi un radiodramma e il protagonista Avram che, nella Guerra del Kippur, affida alla sua ricetrasmittente una sua idea di racconto. Quella parola che lui cede volentieri ai personaggi che gli stanno dentro: «Non è meraviglioso che i personaggi della letteratura ci costruiscano dall'interno? Io sono fortunato: sono piccolo, ma ho dentro di me uno squadrone di personaggi».
E, quando i giovani intervistatori gli chiedono di lasciare una 'parola-seme', la sua scelta cade su 'immaginazione': la qualità principale per uno scrittore che deve «creare il mondo nei suoi romanzi», necessaria per far capire ai lettori che si può «cambiare la realtà e rappresentare persino quello che non esiste», non limitandosi a considerare un unico punto di vista ma aprendosi anche a quello degli altri. Nel suo caso, quello dei palestinesi: «La terra è fondamentale, averla sotto i piedi significa avere una casa, uno Stato. Solo due Stati distinti potranno dare ai due popoli l'unica vita che si meritano: quella normale, senza umiliazioni». L'Esercito è per lui, da buon israeliano, una necessità per l'esistenza di Israele; ma «dovrebbe essere morale, non coinvolto nell'occupazione dei Territori Palestinesi».