06/09/2014 - Meglio di un romanzo

CRONACHE DALL'INTERNO

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Raccontare quello che abbiamo accanto: alcune delle esperienze più interessanti di giornalismo narrativo nascono non a migliaia di chilometri di distanza, ma all'interno della città in cui si vive o nei territori circostanti. Sono diari urbani, cronache di territorio, nelle quali chi scrive cerca di cogliere i segnali anche minimi di una mutazione sociale che si avverte a livello più generale. Angelo Mastrandrea ha raccontato Napoli sulle più importanti riviste francesi e con Il paese del sole ha recentemente realizzato un reportage nell'Italia del Sud al tempo della crisi. Catalina Gayà, giornalista della grande scuola sudamericana, tiene oggi per "El Periòdico" una sorta di registrazione quotidiana degli umori e degli accadimenti invisibili di Barcellona. Li incontra Christian Elia.
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Giornalismo 'narrativo' è una definizione già di per sé controversa, che poco piace ai giornalisti che praticano il genere, ma è ormai diffusa per indicare l'inchiesta. Come diceva qualcuno però, e come sostengono Gayà e Mastrandrea, forse alla fine i nomi poco contano, perché il giornalismo si divide solo in due tipi: quello buono e quello cattivo. Nel caso del giornalismo narrativo si potrebbe aggiungere che ci sono di due tipi di giornalismo: quello approfondito e accurato e quello della breaking news permanente. Per Catarina Gayà, reporter spagnola alunna di Marquez, fare giornalismo narrativo significa stare a «a pie de calle», cioè per la strada, tra la gente. Uno dei suoi ultimi lavori è stato un reportage sui phone center di Lisbona, frequentati soprattutto da stranieri. Ha trascorso mesi ad intervistare, ascoltare ed osservare, raccogliendo i racconti di profughi siriani, dissidenti politici bengalesi o pakistani, bambini filippini che passano il pomeriggio a giocare su internet. Tutti phone center nei quali ha lavorato sono nel raggio di cento metri da casa sua, eppure non aveva mai notato quello che c'era al loro interno. Il compito del cronista secondo Gayà è far vedere le cose che sono invisibili agli occhi perché non le vediamo, o perché non vogliamo vederle, o perché non vogliono farcele vedere. Il giornalismo è un lavoro etico, di servizio agli altri. Un reporter è soprattutto uno in grado di raccogliere e raccontare le voci degli altri. Anche la missione di Angelo Mastrandrea è quella di raccontare fatti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vuole vedere. A Villa di Terno, un comune del casertano, ha raccontato uno dei più grandi mercati delle braccia ancora esistenti in Italia. La mattina presto, nella piazza principale, si presentano dai caporali fiumi di stranieri, soprattutto africani. La piazza in questione si trova a pochi passi dalla caserma dei carabinieri, eppure nessuno dice nulla. Forse perché, fino a pochi anni fa, al posto di quegli stranieri c'erano italiani delle campagne circostanti. Per Mastrandrea uno dei problemi più grandi quando segue una storia è quello del gestire le ingerenze del proprio io. Da un lato c'è la scuola inglese, che gli imporrebbe un'oggettività assoluta e il puro e semplice racconto senza filtri. Dall'altro c'è il dilagare del nuovo ego-giornalismo, in cui i reporter, in una sorta di divismo, presentano l'inchiesta addiritttura come una propria esperienza personale. Dopo anni dalla parte dell'oggettività Mastrandrea ammette di essersi un po' ammorbidito. «L'oggettività pura non esiste. Ricordo ancora il mio unico incontro con Tiziano Terzani. Quando gli chiesi un consiglio lui mi rispose soltanto: fottitene, fottitene dell'oggettività!».

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