07/09/2014 - La terra fragile. Focus sulla letteratura palestinese

UNA BELLEZZA SENZA DIMORA

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«Sin da bambina ho amato raccontare storie o barzellette. E sono stata sempre apprezzata per le mie qualità di 'hakawati', colui che nel mondo arabo ogni giorno, sedendo al caffè, racconta storie tratte dalla tradizione o dalla cronaca». Suad Amiry ha riscoperto questa sua vocazione narrativa quasi per caso, scambiandosi email con gli amici. Da lì viene la sua scrittura dal tono quotidiano, spesso ironica, che le ha permesso di rappresentare la dimensione privata all'oppressione e le perdite che i palestinesi hanno saputo raccontare solo a livello politico. I suoi libri - da "Sharon e mia suocera" al più recente "Golda ha dormito qui" - restituiscono il senso dell'occupazione riportandolo ai paradossi della vita di tutti i giorni, la perdita dell'appartenenza raccontando l'espropriazione della propria casa. La incontra Wasim Dahmash, esperto di letteratura araba.
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L'ultimo incontro del ciclo sul focus sulla letteratura palestinese, "La terra fragile", è lasciato a Suad Amiry, introdotta da Wasim Dahmash con una frase che fa già capire un po' che tipo di persona si andrà a raccontare: «Prima ho amato la scrittura di Suad e poi ho conosciuto e amato Suad». L'argomento centrale dell'incontro è l'importanza del simbolo della casa per i palestinesi, sia per il legame tra architettura e scrittura nella carriera di Amiry, sia per il tema del suo ultimo libro "Golda ha dormito qui". La scrittrice è una vera storyteller (una 'hakawati', come si dice in arabo, una 'raccontastorie'), snocciola piccole storie e aneddoti che incantano di risate il pubblico e aggiunge: «Ero convinta che la letteratura fosse fatta di grandi parole: scrittori con grandi vocabolari su grandi scrivanie che cercavano grandi parole per fare grandi frasi. Ci sono voluti Sharon e mia suocera per farmi capire che bastava una storia e raccontarla semplicemente come io sto facendo con voi». In effetti la sua semplicità è disarmante e ripete più volte, così come ha chiarito anche nell'intervista della mattina con i ragazzi di "Blurandevù", che è quello che lei vuole non è raccontare la difficoltà del popolo palestinese, la tragedia, la guerra, ma la vita, quella di tutti giorni alla ricerca di una qualche normalità condita di umorismo, perché «noi palestinesi, se non ridiamo, siamo costretti a piangere». Concentrandosi poi sul suo ultimo libro, Amiry si fa più seria e spiega subito il perché, confessando l'ostacolo emotivo che la sua opera ha rappresentato per lei negli ultimi anni; spiega che si tratta di raccontare di una vicenda intima, privata e allo stesso tempo comune a tutti i palestinesi: «Non so se vi rendete conto che la metà dei palestinesi che vive nella West Bank sta a 25 minuti dalla sua ex-casa, occupata adesso da una famiglia israeliana, e che capita spesso di fare una passeggiata verso Gerusalemme Ovest, guardare dentro la casa, ma non poter entrare né parlare con la famiglia israeliana che ora sta dove stavano i tuoi genitori». L'atmosfera è cambiata radicalmente dall'inizio dell'incontro: il pubblico ha smesso di ridere e ha iniziato a riflettere. L'autrice continua: «La cosa più difficile è portarci sempre dentro la Palestina che non abbiamo più fuori, è un'ossessione». Suad Amiry si guarda intorno, non le piace l'aria triste che si è creata, non è il suo stile e allora decide di raccontare un'altra delle sue storie esilaranti e il pubblico non può fare a meno di uscire dal Teatro Ariston più consapevole, ma con una risata.

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