09/09/2012

L'AGRICOLTURA DAL BASSO

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Ormai di pomodori coltivati sui balconi se ne vedono tanti, le famiglie fanno la spesa attraverso i gruppi di acquisto, molti sono i consumatori che privilegiano i mercati contadini e gli acquisti a chilometro zero. Si tratta di un movimento sempre più organizzato che punta a cambiare le tecniche di produzione e di commercializzazione degli alimenti, per mettere un freno alle multinazionali agroalimentari e allo sfruttamento irragionevole delle risorse naturali. La rivoluzione è cominciata: l'esercito dei 'cittadini del cibo' si sta facendo strada, un orticello alla volta. Franca Roiatti ("Il nuovo colonialismo", "La rivoluzione della lattuga") ne parla con lo scrittore Fulvio Ervas.


Servizio navetta APAM: partenza da p.zza Sordello ore 17.00, ritorno da Parcobaleno ore 19.15
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«Per avere del cibo buono, devi essere responsabile di quello che coltivi. Io ho iniziato a coltivare un orto, per dare del buon cibo a mia figlia». Così, all'incontro tenutosi domenica al Parcobaleno, Fulvio Ervas introduce Franca Roiatti, autrice del libro "Il nuovo colonialismo, la rivoluzione della lattuga".
Coltivare il cibo non è un atto neutro. Noi tendiamo a considerarlo una merce che compriamo e portiamo a casa, come una maglietta, ma il cibo non è un prodotto come gli altri. È qualcosa che noi introduciamo nel nostro corpo anche tre volte al giorno, e l'atto del mangiare va al di là dei cibi gustosi o del soddisfare l'appetito.
Un aspetto interessante da considerare è il prezzo del cibo. Inteso non soltanto come il costo al supermercato, ma come filiera dello stesso, il percorso  che fa prima di giungere a noi (il cosiddetto 'Food Miles'). Quanto costa alla terra produrre cibo? Qualcuno la definisce un'esternalizzazione, come se fosse qualcosa che non ci riguarda, forse perché gli aspetti negativi di questa filiera si individuano e si pagano col tempo. L'uso scellerato del terreno, la rovina delle risorse delle falde acquifere, i lavoratori sfruttati, sono solo alcuni esempi di chi sconta veramente il fatto che noi il cibo possiamo pagarlo poco. E sono tutti costi di difficile quantificazione.
Così come una maggiore spesa sanitaria non significa meno malattie, allo stesso modo più cibo non significa meno disturbi gastrointestinali, per esempio. Noi siamo convinti di mangiare bene. Ma come sta il nostro stomaco, o il nostro intestino? Quante persone conosciamo con allergie alimentari?
C'è inoltre la questione economica. Lo sviluppo industriale ha sottratto terreni all'agricoltura e in questi anni, caratterizzati da diverse crisi, la gente comincia a riappropiarsene. Sono meccanismi che tendenzialmente si mettono in moto per necessità e poi prendono piede, si espandono e diventano progetti che coinvolgono comunità intere, e che magari arrivano a creare nuovi posti di lavoro. In molti casi la scintilla non nasce dal produttore, ma dal consumatore. E risulta chiaro che è un percorso partito da persone volenterose.
E infine, ci sono altri dibattiti che ben conosciamo: alcuni tra gli esempi possibili sono la critica dei trattamenti dei terreni, che aiutano però un'impresa agricola arrancante, e le varietà di coltivazioni controllate dalle multinazionali, che sono comunque servite per soddisfare il bisogno sempre maggiore di una popolazione crescente. Bisogna implementare la produttività con metodi e tecnologie innovativi, o bisogna tornare ai metodi di cinquant'anni fa? Questa tendenza a condannare i metodi di produzione odierni e l'esortazione al ripristino di un'agricoltura tradizionale, non sono forse eccessive? Probabilmente il punto non sta nelle tecnologie, ma nell'etica. Quello che va mantenuto è il rispetto della terra che coltiviamo, della natura che purtroppo non viviamo, ma sfruttiamo come una macchina. Solo poche decadi fa l'approccio era di estrema considerazione per ciò che, opportunamente coltivato, poteva permetterci di vivere.

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