06/09/2013 - Genealogie

COME NASCE UNA SAGA FAMILIARE?

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"I Buddenbrook", "Cent'anni di solitudine", "I Vicerè": la genealogia familiare rappresenta il motore primo di molti dei capolavori della letteratura mondiale. Storie ampie, fluviali, in cui seguendo il filo delle generazioni si legge il mutare di un mondo intero. Nella fucina dello scrittore la potenza immaginativa spesso prende alimento da un puntuale lavoro di ricerca su fonti documentarie, fondi archivistici, fotografie e altri materiali, attraverso il quale diventa possibile ricreare il vero di quelle storie. Simonetta Agnello Hornby, autrice di amatissime storie familiari come "La mennulara" e "La zia marchesa", ed Elisabetta Mori dell'Archivio Capitolino di Roma, in cui sono custoditi diversi fondi familiari, si confrontano insieme allo storico della lingua Giuseppe Antonelli su questo fertile rapporto tra documenti e romanzi familiari.
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Italiano
Simonetta Agnello Hornby è un avvocato minorile, prima ancora che una scrittrice, mentre Elisabetta Mori un'archivista. Metterle a confronto, con la moderazione del linguista Giuseppe Antonelli, per parlare di come la storia influisca sulle storie che hanno scritto fa emergere, per forza di cose, due opposti punti di vista. Tutto parte dall'ambiguità, dovuta alla lingua italiana, per la quale con storia si possono definire sia la successione degli eventi del passato che una particolare vicenda raccontata, vera o inventata che sia. A questa ambiguità viene sovrapposto, nello specifico, l'elemento familiare, che in letteratura viene di solito incasellato sotto la voce 'genealogia' oppure 'saga'. Già su questo le due autrici si dividono: per la Hornby una genealogia è una «caratteristica di famiglia da prendere un po' in giro», come quando chiamava i cugini Coconidi perché figli di zio Cocò prendendo a modello gli Atridi dell'"Iliade". Per Mori invece, che lavora all'Archivio Capitolino riordinando gli archivi di antiche famiglie romane, la genealogia è «strumento di lavoro e percorso da ordinare». Un'altra importante riflessione affrontata dalle due autrici riguarda la questione della verità: per Hornby ciò che conta è la verosimiglianza, non la verità. Anche se ha scritto parecchi romanzi basati sulla sua famiglia, confessa di non avere seguito «apposta i documenti archivistici: non mi interessa quello che è successo nel 1860 ma raccontare una storia che mi piace». Ma anche Mori rivela una sorpresa: lavorare sui documenti assicura sì la testimonianza scritta di fatti, ma non è detto che i fatti siano per forza veri. Per esempio, nel Seicento la regina Elisabetta II regalò un finto albero genealogico, e una finta parentela, a un membro della famiglia Orsini. Oppure, può accadere che i fatti vengano «montati» per i fini più svariati. Come accaduto a Isabella de' Medici, che una vulgata diffusa ritiene essere stata strangolata dal marito Paolo Giordano Orsini: la verità 'vera' invece è che morì di morte naturale, per idropisia, una malattia che - in quanto granduchessa di Firenze - doveva tenere nascosta. Tornando invece alla genealogia, l'ereditarietà è un altro aspetto sul quale le due autrici si dividono: a Mori interessa un'ereditarietà in linea femminile, poco canonica da un punto di vista archivistico, che spiega i passaggi di carte da una famiglia all'altra. Per Hornby, invece, l'ereditarietà è «l'abitudine di vivere insieme» e la cosa più bella che una famiglia crea è l'appartenenza data da alcune parole, quelle che usiamo solo con i nostri famigliari e che sono un vero e proprio codice identificativo.

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